Squarci | domenica 14 settembre 2008

Giuseppe Sterlicco

Il testamento di un morto che parla


1

Quella notte mi svegliai più presto del solito. Aprii gli occhi, di scatto, come se avessi fatto un brutto sogno.
Ero sudato e tremavo.
Mi voltai verso Joey e la vidi dormire serenamente, accanto a me. Le scostai lentamente una ciocca di capelli dagli occhi e le sfiorai una guancia. Lei sorrise, nel sonno.
Guardai la sveglia che avevo accanto, sul comodino, e vidi che segnava le 3 e 46. Affondai la testa sul cuscino e tirai su le coperte. Sentivo al mio fianco il calore di Joey e bastò semplicemente questo a farmi richiudere gli occhi e dormire.

2

Un dolce profumo di tè mi diede il buongiorno. Aprii gli occhi e vidi i raggi di un sole di fine estate battere sulle tendine, alla finestra. Joey sgambettò verso il letto con in mano una tazza di tè.
Era bellissima la mia Joey.
Aveva addosso una mia maglietta, che le andava di quattro misure più larga, ma era bella lo stesso, come sempre. I suoi occhi neri, le sue labbra rosa, i suoi seni piccoli e sodi: tutto era così meraviglioso in quella donna. Così meraviglioso che ogni giorno non riuscivo a capire che cosa trovasse in me.
Presi la tazza dalle sue mani e tirai giù un sorso. Poggiai la tazza sul comodino e sbirciai la sveglia. Erano le 06 e 46.
Afferrai Joey per la testa e le stampai un bacio sulle labbra. Lentamente la sua lingua scivolò nella mia bocca.
- Ah, amore mio... - sussurrai - finalmente oggi è il mio ultimo giorno di lavoro in quel maledetto ufficio! -
- Già, da domani sarai tutto mio! - esclamò.
- Per poche settimane. Poi mi contatteranno quelli della casa editrice e mi faranno sapere qualcosa… -
All'improvviso la sveglia trillò e bastò scaraventarla a terra per farla smettere.
- Amore, possibile che ogni mattina tu debba maltrattare quel povero aggeggino! - bofonchiò la mia Joey.
Poi mi saltò addosso e facemmo l'amore.

3

Fu intenso e la cosa mi stupì.
Facemmo l'amore sul letto, tra i rantoli della mia sveglia maltrattata e una tazza di tè bollente che iniziava a raffreddarsi.
Mi alzai e mi feci una doccia mentre Joey rimase a letto ancora per un po’.
Il vapore della doccia inondò il bagno. Quando ebbi finito, mi asciugai e iniziai a vestirmi.
Non ricordo ancora perché, ma per il mio ultimo giorno di lavoro avevo scelto i miei abiti migliori. Una camicia, un jeans, una giacca e stivali texani. Erano gli stessi vestiti che indossavo quando da ragazzo suonavo con la mia band. Non li indossavo da un pezzo, da quando la mia band si era sciolta (e con essa tutti i miei sogni ) e ogni volta che Joey mi chiedeva di farlo ripetevo: - Questi vestiti li infilerò per l'ultima volta al giorno del mio funerale -. Quella mattina decisi di indossarli rompendo l'incantesimo.
- Woooooow, la mia rockstar! - esclamò Joey, meravigliata.
- Eh già… - sospirai.
- Non eri quello che li avrebbe indossati solo nel giorno del suo funerale? - chiese, incuriosita.
- Da oggi finalmente mi dedicherò a tempo pieno ai miei romanzi e alle mie poesie. Basta giornali, dopo-scuola ai marmocchi di dodici anni e cazzate varie. Oggi è il funerale del vecchio ’’me’’, no? - spiegai.
- Giustissimo... - sussurrò Joey, aggiungendo - è solo che... -
- È solo che cosa? -
- È solo che con quei vestiti mi fai eccitare... -
E così finimmo sul parquet della nostra camera da letto.

4

Erano le 8 e 05. Ero in ritardo per il mio ultimo giorno di lavoro.
Joey conosceva ben tre lingue e lavorava per riviste, televisioni e uffici vari. Il mondo l'avevano in mano due categorie di persone: quelli coi soldi e quelli che conoscono le lingue. Io ero solo un povero giornalista che si credeva uno scrittore.
Mi infilai la giacca e abbracciai Joey.
- Ci vediamo stasera, amore - dissi.
- Ok, tesoro mio. - disse.
Ci baciammo.
Corsi alla porta e mi voltai. Non l'avevo mai fatto.
Guardai Joey dritto negli occhi per qualche secondo, nel totale silenzio.
Poi le dissi - Ti amo! -
- Ti amo anch'io - esclamò, sorridendo.
Richiusi la porta e corsi dritto in ufficio.

5

Lavoravo al novantaseiesimo piano della Torre Nord del World Trade Center. Proprio a quel piano, l'agenzia giornalistica presso la quale lavoravo aveva spostato i suoi uffici. Un mese prima eravamo ancora al decimo piano.
Sebbene odiassi le altezze avevo pensato che, in fondo, un mese tra le nuvole non m'avrebbe fatto tanto male: sarebbe stato soltanto un mese e poi finalmente avrei potuto concentrarmi interamente sul mio vero lavoro. Magari l’aria genuina che si respira agli ultimi piani di un grattacielo mi avrebbe reso il celebre scrittore che credevo di essere.
Presi i tre o quattro ascensori d'ordinanza e arrivai agli uffici.
Fortunatamente il mio appartamento era nei pressi delle Torri Gemelle. Riuscivo a raggiungere la Hall al piano terra in meno di dieci minuti da casa mia.
Erano le 8 e 20 quando mi ritrovai il mio futuro ex capo davanti.
- Signor Blake lei è in ritardo! - urlò, furioso.
- Che vuole che le dica... Mi licenzi... - dissi, ostentando un sorrisetto beffardo.
- Scherza, scherza... se ne renderà conto più avanti... in futuro... - disse il mio futuro ex capo, iniziando ad elencarmi tutte le cose che avrei rimpianto quando mi sarei accorto che in realtà i miei libri sarebbero rimasti invenduti, per anni e anni, sugli scaffali delle librerie. Nemmeno quella mattina si risparmiò di descrivermi, nei minimi dettagli, il momento esatto in cui, dagli scaffali delle librerie, i miei libri sarebbero finiti dritti sulle bancarelle da un dollaro.
- Come vuole lei, signore. - sentenziai. Poi girai i tacchi e andai al mio ufficio.

6

Il mio ufficio personale corrispondeva alla facciata settentrionale della Torre nella quale lavoravo.
Quando eravamo ancora al decimo piano il mio ufficio corrispondeva, invece, alla facciata opposta.
Anziché godermi il riflesso della mia Torre contro i vetri della sua gemella adesso avevo davanti a me un bel panorama fatto di cielo, case e strade. Nell’ultimo mese avevo visto non so quanti aerei rumoreggiare in quello stesso cielo. Una fortuna per uno come me che odiava le altezze.
Mi sedetti al computer e premetti il tasto per accenderlo. Guardai sul desktop e vidi che la cartella nella quale avevo salvato le poesie che avevo scritto il giorno precedente era ancora lì.
In quei giorni mi sentivo svuotato e avevo l’impressione che da un giorno all’altro il destino mi avrebbe riservato un brutto scherzo. Che fosse la mia futura casa editrice, che fosse l’esattore delle tasse o semplicemente la morte travestita da qualcuno (o qualcosa ) avevo deciso che non mi sarei fatto cogliere di sorpresa. E quelle poesie ne erano un chiaro esempio fin dal titolo dell’intero documento-raccolta in pdf: Il testamento di un morto che parla.
Ne inviai una copia, velocemente, all’email di Joey raccomandandole di farle pubblicare ugualmente, anche se mi fosse successo qualcosa. L’istinto mi disse semplicemente questo, quella mattina.




7

Cliccai sull'icona di Word dopo aver cancellato quelle poesie e iniziai a fissare il faccione bianco del computer.
Aspettai qualche minuto e finalmente mi resi conto che mi sentivo svuotato. Nemmeno un verso né una semplice frase mi ruotavano nella testa. Forse le parole migliori le avevo scritte proprio il giorno precedente e non ne avrei scritte mai più altre come quelle. È la gatta da pelare di ogni scrittore, no?
Mi stiracchiai contro lo schienale della mia poltroncina e decisi che avrei passato il mio ultimo giorno di lavoro a guardare di sotto. Magari l'altezza mi avrebbe ispirato qualcosa di meglio che un ultimo articolo per quel giornaletto da quattro soldi.
Buttai gli occhi sull'orologio del computer e vidi che erano le 8 e 35.
Non avevo mai avuto la fissa del tempo né tantomeno avevo guardato più di due volte al giorno l'orologio in vita mia. Ma dalla notte precedente l'avevo fissato già per più di tre volte.
- Mah... sarò iper-stressato. - mi ripetei in mente.
Dal mio ufficio si sentiva il chiacchierìo che proveniva dagli ufficetti accanto e per un attimo fui tentato di andarmene al mio vecchio piano, il decimo, per vedere se Fray il custode era ancora lì.
Ma in quel preciso momento suonò il mio cellulare.
Guardai il display e vidi il nome più bello del mondo lampeggiare: Joey.

8

Erano le 8 e 46 dell’11 settembre 2001.
Non feci nemmeno in tempo a rispondere all’ultima telefonata della mia Joey che voleva avvisarmi che di lì a nove mesi sarei diventato padre.
Ebbi solo un secondo per schiacciare il tasto verde del mio cellulare prima di voltarmi verso la finestra e vedere il muso di un enorme Boeing dell’American AirLines venire contro di me. Voi lo conoscete semplicemente come il Volo Undici.
Forse Joey sentì il boato, lo stesso boato che sentirono quasi tutti gli abitanti newyorkesi.
Io vidi soltanto i vetri infrangersi e schizzare via, velocemente, dappertutto.
Poi ci fu il buio.



avvertenza sugli scrupoli del cuore

fa sì che tutto quel che c'è
rimanga impresso nel tuo cuore
fino alla fine dei nostri giorni:
la vita non è eterna
e con la morte
non si può barare

- Da Il testamento di un morto che parla -



Su Giuseppe Sterlicco
E' nato il 17 maggio 1987, una settimana in anticipo rispetto ai calcoli e alle aspettative: evidentemente, secondo lui, teneva molto a vedere questo mondo il più presto possibile. A dieci anni ha fatto la prima (ed ultima) comunione. A sedici anni ha conosciuto Leopardi, Baudelaire, Nietzsche, Bukowski, e a diciotto ha scritto la sua prima vera poesia e fondato un gruppo rock, col quale suona ancora oggi.

Sulla rubrica Squarci
Se la scrittura si serve di aghi e coltelli, se punge e lacera, se ogni pagina apre un varco in mezzo all'ovvio e al non detto, se la ragione ha bisogno di attimi di illucidità, se ogni testo si apre su un paesaggio interiore, se è un buco della serratura da cui spiare il mondo, se duole, se è una lama nella carne, se è una trama interrotta in un punto a caso, se la narrazione si spezza come un canto, se è una dissonanza, se semplicemente siete curiosi di sapere chi siamo. Estratti, ferite, fenditure di scrittura, un modo per sentire i nostri silenzi e leggere tra le righe di ciò che abbiamo in cantiere.

Poesie dure&crude, di Giuseppe Sterlicco (Gli Scacchi, 2008)