Poesie dure&crude
Giuseppe Sterlicco
Immagina la scena: entri in libreria con la speranza di incontrare le parole che hai sempre voluto sentirti dire o per ripararti dalla pioggia o anche solo per farci un giro e basta, e ti ritrovi in mano questo volume di poesie.
Che sia chiaro: con la poesia bisogna andarci coi piedi di piombo e non sempre per qualcuno è 'poesia' ciò che per un altro, invece, lo è.
Ti ritrovi in mano questo volume di poesie, dicevo, e inizi a sfogliarne le pagine, a sentirne la consistenza sotto le dita, a leggerne le parole stampate...
Di solito una nota di copertina dovrebbe servire a spronarti a comprare questo o quell'altro libro, a sintetizzarne il contenuto. In un'unica parola: a convincerti.
Ma io no, non ho questa pretesa: mi basta sapere che ci siamo anche solo incontrati
per un attimo, tu nella tua pelle, io nelle mie parole, e che, anche solo per un momento, ti sia sentito 'a casa tua' tra le mie pagine, tra le mie poesie.
Se c'è, il resto verrà da sé.
Su Giuseppe Sterlicco
E' nato il 17 maggio 1987, una settimana in anticipo rispetto ai calcoli e alle aspettative: evidentemente, secondo lui, teneva molto a vedere questo mondo il più presto possibile. A dieci anni ha fatto la prima (ed ultima) comunione. A sedici anni ha conosciuto Leopardi, Baudelaire, Nietzsche, Bukowski, e a diciotto ha scritto la sua prima vera poesia e fondato un gruppo rock, col quale suona ancora oggi.
Gli Scacchi
Fare poesia è muovere parole sulla scacchiera dei vuoti e dei pieni: la pagina bianca, le parole nere. Fare poesia è giocare col tempo, contro il tempo, (re)inventandolo a proprio favore: è un gioco di pazienza, un corteggiamento, una guerra. Trovare la parola "giusta", "quella parola", che a(ni)ma il silenzio, è uno scacco (matto...e folle!) ai Re e alle Regine. Fare poesia è stare soli con le proprie pedine, ascoltando(si), in mezzo al frastuono del mondo.
È sabbia sotto i denti. Poesia impoetica, fisica e spietata come solo il corpo sa esserlo, quando si ferisce, si ammala, invecchia, marcisce, incurante della fragilità e delle velleità del sé che ospita. Discorso inesorabile, scabro, scontroso, che non indulge alla sfumatura né media con l’allusione. Parole che trattengono gli odori, gli umori, i sapori, frammenti di carne in bilico tra la vita e il nulla. camminiamo a testa bassa /di corsia e in corsia / certi che quei rumori / e quegli odori / siano tutto ciò che in realtà / non vorremmo sentire.
L’avvertenza che Giuseppe Sterlicco rivolge al lettore in premessa non attenua l’effetto ‘pugno nello stomaco’ di queste tutt’altro che innocue e innocenti poesie che avvelenano il pozzo delle acque consolatorie, impedendoci la possibilità di far finta di non vedere, di non sapere. Da subito.
La morte
Il tema della morte attraversa tutta la scrittura di Giuseppe che si mantiene lontano da ogni concetto di rigenerazione per attestarsi su quello più umano e concreto di generazione e del susseguirsi vano di una generazione all’altra che non ne saprà più della precedente: '' che senso ha ?/ che senso ? / si domanda il vecchio morente sudare una vita per pagarmi / le cure ? / vivere una vita intera attendendo la morte ? / e i sogni / in tutto questo / dove sono ? '' / guardò il bambino / un po’ prima di spirare / con una / raccomandazione / '' tu devi Scappare ''. Ma noi sappiamo che il bambino non fuggirà.
L’esordio avviene, con apparente ossimoro, sulle note della morte; del dolore probabilmente, ma del dolore non dice. Dice della scrittura come atto vitale, soltanto giustapposto allo scandalo del morire che la parola non riscatta. Non ci sono, qui, le mani lievi della poesia a risignificare la distruzione, il disfacimento. A distogliere l’attenzione dalla fine.
Il corpo
Il discorso poetico di Giuseppe è uno dei tanti fluidi corporei, mai abbastanza rarefatto da attingere il livello della bellezza come speranza. Ne l’estro creativo il corpo poetico è intasato come un vulcano dormiente. Tutta la mistica letterario-psicoanalitica della ‘pagina bianca’ perde l’ala del tormento intellettuale e precipita in parole fangose, costipazione e frustrazione di visceri in tumulto. Rabbia smisurata e impotente che, nondimeno, tenta ogni via d’uscita espressiva, inclusa la nuda attualizzazione del proverbio: mi rivolsi al cielo / e mollai uno sputo che toccò il soffitto / si fermò / e ricadde / veloce / umido / nel mio occhio. Rancore solitario che s’impenna e si dibatte davanti al faccione luminoso del computer, una smania di creatività che quando, infine, sgorga produce un solo, inevitabile gesto: cancellai tutto. Come: tirai lo sciacquone.
Un bisogno di dire che non si appaga nel dire, se non per l’attimo in cui si dice. Ritmo biologico. Battito vitale non finalizzato, ma finito.
Il sé
Corpo tra corpi, il sé poetico è formulato con coerente parsimonia di autostima, venata di violenza autolesionistica opportunamente temperata dall’esitazione razionale: volevo strapparmi gli occhi con le dita / e allora infilavo il pollice e l'indice nell'orbita /e cercavo di stringere / ma poi mi ricordavo che avrei preferito perdere tutto / eccetto la vista.
Un sé normodotato, dunque, ma con un tasso di distinzione sufficiente a resistere alla dissoluzione nella moltitudine. Gli altri, sono quelli del conformismo di massa, già vituperati da schiere di scrittori e cantautori più o meno maledetti, e che si addensano in maniera particolare in città come la nostra. Qui il sé, più che dall’indifferenza, aggredito dalla mancanza di rispetto degli altri e delle istituzioni, sviluppa una speciale sofferenza urbana che ci ammala. Da qui, Giuseppe grida li odio /li odio / li odio / anche se non li conosco, ma conosce la fatica di vivere senza rassegnazione in una città ferocemente rassegnata.
In Poesie dure e crude l’amore è quasi assente, ma si tratta di un’assenza accorta e intenzionale, protettiva. Il dire crea ma disperde.
Anche la speranza, infine, occhieggia dal fondo di una pagina, irridente: spero di riuscire a morire / alla luce del sole / distrattamente / come se / non stesse succedendo / a me.Iaia De Marco