Squarci | domenica 10 gennaio 2010

Paola D'Agostino

L’inquietudine dei pesci rossi

L’inquietudine dei pesci rossi
(di che moriamo quando moriamo d’amore)

È arrivato in un giorno di marzo. A sorpresa, dentro un abitacolo trasparente. Per prima cosa gli ho guardato gli occhi, chiedendomi quanto sarebbe durato. In genere hanno vita breve, quando impari a prendertene cura, quando sei pronto a trasferirli in un’ampolla maggiore, a dargli più spazio di respiro, allora muoiono, inspiegabilmente. È così sin da quando ero bambina. Perciò ho smesso di credere che potessero vivere più a lungo della mia dedizione. Sopravvivermi.

È arrivato che non aveva nome. Semplicemente scivolava dentro le mie giornate, come un silenzio a singhiozzi. Un corpo in discreto movimento nel mio spazio vitale. Senza emettere suoni, senza chiedere niente. Poi ha cominciato ad avere orari, urgenze. Ha cominciato a reagire alle mie distrazioni, alla fretta che il giorno-per-giorno a volte impone. Ha iniziato ad essere un impegno, una parte del tutto, la responsabilità. Gli ho dato un nome, che si è staccato dalle mie parole tutte insieme ed è diventato solamente suo. La sua esistenza minima.

Il nome che porta è un’eco delle mie vite anteriori, ma anche così non mi appartiene più di quanto io appartenga a lui. Non gli impongo nessuna obbedienza. Lo osservo, mentre si muove dentro il suo percorso obbligato, l’unico che conosce, l’unico che abbia mai saputo. Ha elaborato la sua strategia di sopravvivenza, cerca punti nel paesaggio che riconosce familiari. Disegna un circolo che non è uguale al mio, mentre continuo a chiedermi dove sia diretto, quali cure, le prossime, mi domanderà.

È così, l’amore. Un’ampolla limitata nella quale si muovono in apparente libertà tutte le creature di ogni stagione. Dentro ci metti acqua limpida, piante che crescono a un ritmo incontenibile, alimento, alimento. E nonostante tutto, nonostante le premure, nessun dettaglio addolcisce la prigionia di chi ci vive dentro. Sto chiedendo ad un essere vivo di adattarsi al poco spazio che gli ho riservato, che la mia vita riserva a me, che ho saputo costruire, tenere libero, e di nuovo abitare.

Respira, fuori dal mio corpo. Se lo ingoio e me lo tengo dentro, lo sto uccidendo. Se lo lascio libero, si sente perso nell’astratto, disorientato. Ogni volta è così.

Vorrei poter sapere che ci sei, che mi senti quando ti sono vicino, che in ogni istante della tua giornata pensi al momento in cui tornerai da me, da me che ti aspetto, chiuso in quello spazio minimo che mi hai lasciato. – Vorrei che fossi solo mio, essere la tua ampolla, il mondo in cui passeggi dentro la tua vita, vorrei essere il tuo tutto, punto d’arrivo di ogni tuo pensiero. - Vorrei costituire la sintesi di ogni tuo progetto, parlarti anche mentre parli con te stesso. - A cosa stai pensando, esattamente, ora?

L’ampolla è una specie di asfissia. Tutto lo spazio intorno un vuoto che ci disperde.

Ora io sono il pesce. La mia casa è un circolo di vetro, un corridoio fatto di parole. Resisto ai beni immobili, fuggo da ogni labilità definitiva. Se tutto il mare smettesse di farmi paura in quanto tutto, smetterei l’ampolla, la castrazione. Invece aspetto che venga un nuovo giorno, per avere acqua nuova, nuova sostanza nutritiva. E ricomincio la corsa immobile dentro il mio percorso obbligato.

Sono il pesce, e l’ampolla, insieme. E l’ampolla è il mio amore, il riflesso nel quale mi specchio, obbligatoriamente. Perché non riconosco nessuno scenario alternativo, nessun esempio da seguire. Sono uno spazio circoscritto, che non permette invasioni. Dove non entra nulla che possa ferirmi, fraintendermi, modificarmi.

Vorrei che mi amassi senza chiedermi niente. Ma l’amore è un gigante e ha fame infinita.

Vorrei tenerti chiuso nel mio mondo senza doverlo modificare per riceverti. Senza che la tua presenza alteri il mio habitat naturale. Ma il mio egoismo di per sé giustifica il tuo.

Vorrei che la tua lingua fosse la mia, ogni tuo atto politico-poetico, ogni tua rappresentazione di mondo. Ma l’amore presuppone viaggi diversi che si incrociano, si guardano e imparano a conoscersi e a conoscere. Esploro il tuo corpo, come una somma di segnali e punteggiature. Ci leggo dentro una storia molto diversa dalla mia. È la tua differenza che mi affascina.

Il pesce rosso si chiama Samir. Il mio amore, invece, ha un nome diverso che non gli ho dato io. Nell’ampolla ci sono i piatti da lavare, i panni sporchi, il ferro da stiro. E poi le settimane difficili, gli appuntamenti di lavoro, le scadenze. Il tempo è l’acqua alla gola.

Quando emergo dalla fretta del mio caos, Samir lo trovo sul fondo dell’acquario, senza energie, in attesa dei suoi fiocchi di alghe. Gli do da mangiare, e il nostro rapporto ricomincia dal punto in cui si era interrotto.

Col mio amore, invece, non è così. Ogni volta che la mia distrazione lo ferisce, il tempo si azzera e ci scaraventa in un vortice di recriminazioni. Ritorniamo sconosciuti, contabili integerrimi di ogni carezza in debito. A differenza di un pesce rosso, l’amore dispone di parole, e non sempre è un bene.

Allora mi riapproprio del mio silenzio, come Samir. Ci metto intorno una barriera trasparente, la mia corazza, e fingo di non capire. Rispolvero la solitudine come libertà, il mare aperto, persino il possibile annegamento. La mia dimensione è la deriva, quella che più mi si addice. Posso adattarmi alle piante di un acquario qualunque, offrirmi in dono al sogno dell’ampolla e dell’obbedienza. Ma non dura mai a lungo. Sin da quando ero bambina.

C’è un momento in cui l’altomare diventa necessario, un istante solo, in cui il caos è istinto vitale. La prima volta che sono andata via di casa avevo 9 anni e sognavo un altrove in cui mi riconoscessi di più. Poi l’ho rifatto, innumerevoli volte. La liberta è una strada deserta, il contrario assoluto di ogni tipo d’amore. Il bisogno di casa, invece, presuppone il desiderio di essere amati.

Se potessero alternarsi armoniosamente, le due cose insieme sarebbero la libertà che cerchiamo. Ma se entrano in conflitto tra loro, l’ampolla diventa un carcere. Una pena da scontare. Quel vuoto d’aria di cui moriamo quando moriamo d’amore.


Su Paola D'Agostino
Una sorta di manovale delle parole: le insegna, le traduce, le scrive. Nel 1998 si è laureata in Lingua e Letteratura Portoghese all’Orientale di Napoli, con una tesi sul “Libro dell’inquietudine” di Pessoa. Dal 2000 risiede in Portogallo, e dal 2002 insegna all’Istituto Italiano di Cultura di Lisbona. Ha curato l’antologia “Dall’Asilo dell’Invisibile” (Napoli, 1998) e pubblicato testi di narrativa e critica letteraria. Ha collaborato alla drammaturgia dello spettacolo “A árvore do Tenéré” (regia di Luca Aprea, Lisbona, 2002). “Largo delle necessità” è il suo primo romanzo.

Sulla rubrica Squarci
Se la scrittura si serve di aghi e coltelli, se punge e lacera, se ogni pagina apre un varco in mezzo all'ovvio e al non detto, se la ragione ha bisogno di attimi di illucidità, se ogni testo si apre su un paesaggio interiore, se è un buco della serratura da cui spiare il mondo, se duole, se è una lama nella carne, se è una trama interrotta in un punto a caso, se la narrazione si spezza come un canto, se è una dissonanza, se semplicemente siete curiosi di sapere chi siamo. Estratti, ferite, fenditure di scrittura, un modo per sentire i nostri silenzi e leggere tra le righe di ciò che abbiamo in cantiere.

Questo freddo, di Paola D'Agostino (I Coltelli, 2012)
Largo delle Necessità, di Paola D'Agostino (I Coltelli, 2005)