Squarci | sabato 21 gennaio 2006
Paola D'Agostino
Siccità
Non piove da duecento giorni e il cielo è secco e non promette nuvole. Sento sete d’infinito e tutto intorno il verde scolora e ritraendosi fa terra bruciata.
A due passi da me l’oceano fa capriole di onde e schiuma, ostenta una ricchezza minacciosa d’acque e sale e giorni di mare.
Non posso non notare che quest’anno i girasoli hanno disertato le nostre terre, e che i cavalli muoiono, e i pozzi sono vuoti, e le susine non hanno più il sapore di un tempo.
Eppure a valle i campi da golf sono irrigati tutti i giorni, e le risaie, a monte, trattengono le acque del fiume che da noi arrivano già inquinate.
Le ultime case hanno preso fuoco stanotte, l’elicottero dei pompieri è precipitato mentre cercava di spegnere le fiamme.
“Quel che è peggio è che è tutto vero”- dice il poeta.
E noi?
Viviamo ai margini di una laguna, dietro le dune di sabbia che fa il mare. Da noi, in periferia, tutto arriva dopo un po’, sempre tardi, sempre quando gli altri sono sazi. Quando resta qualcosa da dividersi.
L’acqua che ci raggiunge porta con sé un fardello di prodotti chimici, di scorie, di resti umani e immorali.
La nostra pozza è piccola, troppo piccola per contenerci tutti, perdiamo colore tra le chiazze di grasso che si sommano sulle nostre squame.
Pesci d’acqua dolce, siamo i primi a morire. Non abbiamo un altrove, un buco attraverso cui scappare.
Questa recinzione è causa e effetto del nostro finire.
Quando fa giorno i morti salgono in superficie e vi galleggiano per giorni, e allora i più si accorgono del nostro malessere e per un po’ ci mettono sui giornali.
Giochiamo a scommettere chi sarà l’ultimo ad evaporare, e intanto la notte e l’alba, il tramonto, i coralli e l’odore del mare.
L’aquilone che ci cade addosso stasera sembra una zattera gigante venuta a salvarci. Ma non ancora...
Vivere in acque sporche significa aver paura di respirare, di bagnarsi e perfino di continuare.
Perciò moriamo, forse solo per paura di morire.