Squarci | giovedì 10 novembre 2005

Paola D'Agostino

Polvere

Il tempo passa e resta. Maria Zambrano. Voglio un carico che mi faccia da zavorra, un elogio della pesantezza. Qualcosa che mi dia durata. Voglio scrivere una semantica della polvere, voglio provare a comporre una consistenza. Il racconto sarà la narrazione del mio desiderio di trovare le parole. C’è movimento. C’è angoscia. C’è una ferrea volontà di nominare. Sarà un racconto storico, la storia di una generazione affetta da “sindrome di Ulisse”, l’Europa in costruzione, la mobilità orizzontale.
«E per quanto m’ingegnassi di mettere parole tra me e le cose, non mi riusciva di trovarne d’adatte a rivestirle; perché tutte le mie parole erano dure e appena scheggiate: e il dirle era come posare tante pietre». Calvino. Su una nuvola tutta sua. «E vidi me impossibile a conciliare con il mondo intorno». Boom!
Sarebbe la storia di un tipo, Luigi Stop, anni trentasei, nato in provincia, in un punto qualunque della sterminata provincia italiana, che un giorno si sveglia e comincia a cercare qualcosa. Apre i cassetti, apre il cestello della lavatrice all’americana, tira il coperchio della zuccheriera che fa da soprammobile, apre le finestre, apre la porta e se ne va.
Gli chiedono cosa cerchi, che ha perso, dove sarà, ma lui non dice, cerca, sbircia, si guarda intorno, squarci di ragion veduta, segue una pista, determinato a trovare.
Sale in macchina, chiude lo sportello, apre il finestrino, saluta con la mano, e parte per la campagna. La macchina è un punto sempre più piccolo, poi torna indietro, come in un videogame, la macchina è un punto sempre più grande, finché parcheggia sotto casa, col motore acceso, sale a prendere una valigia gialla, la riempie e va via di nuovo. La macchina la vende al primo autogrill.
Sua moglie dirà che è un egoista, sua madre lo chiamerà irresponsabile, gli amici gli diranno che è un traditore. Hanno ragione tutti. Luigi Stop dirà che non poteva fare altrimenti, e ha ragione anche lui.
La vita sistemata in valigia senza stirarla né piegarla per bene, Luigi Stop si fermerà in una città, grande, con le luci, e andrà al cinema a vedere un film. Poi a teatro, ma vedrà un assolo di danza. Alla fine dello spettacolo cercherà un bar, chiederà da bere e comincerà a parlare con qualcuno del posto. Poi verranno gli amici di quello, e altri amici, e poi una donna, che Luigi porterà al luna park. No, ho sbagliato, la porterà a mangiare da qualche parte: ormai ci si vede solo per mangiare, per fisiche necessità non rimandabili.
Quando lei gli chiederà di entrare in valigia, Luigi Stop andrà via di nuovo, senza di lei, verso un’altra città, ancora più lontana, su un mare ancora più grande, sempre con la valigia gialla alle calcagna. Sempre guardandosi intorno, con lo sguardo inquieto a procurare.
Mentre corre sulla spiaggia di sabbia, Luigi si scrolla di dosso un granello di qualcosa che punge, corre, respiro affannoso, e intorno gli danzano figure di donne e alberi snelli, e la notte gli vengono incontro sorrisi di chiacchiere a volte profonde, di posti lontani, lontani dove c’è l’alba a sfidare il tramonto, e allora gli sembra di essere quasi arrivato a trovare l’oggetto del suo deambulare.
Gli arriva un lavoro, una donna, una storia, una casa venuta su bene, Luigi comincia a sentirsi più stanco, cercare è un costante rumore di elettrici suoni a martello, la testa gli scoppia, non trova, non prova nemmeno a cercare.
Dirà che è stanco, di vagare, di vivere sempre in velocità, dirà che ha bisogno di tirare via la vita dalla valigia e farla circolare in giro per un po’.
Eccolo che si ferma, Luigi Stop, apre una sedia a sdraio e la posiziona sotto una palma o un albero di fichi, sotto un’ombra qualunque, sotto un tetto che gli fa fresco.
E si dimentica del primo giorno, della macchina, della valigia. E comincia lentamente a rimanere.

Dice lo Zanichelli alla voce polvere: «Terra arida, in minutissime particelle incoerenti, che si forma al suolo e, sollevata e trasportata dal vento, si posa sugli oggetti»; continua con un’immagine: «mobili pieni di p.: (fig. indicando la polvere il disuso, l’abbandono, la scomparsa di antichi mondi e civiltà)», quindi «lett.: simbolo di sconfitta»: e qui cita Manzoni, “Il cinque maggio”: «Due volte nella polvere, due volte sull’altar». (Come avrebbe detto il mio professore di storia, «Con la Francia o con la Spagna, basta che si magna!»).
Al dovere di citazione si aggiungono i miei ricordi d’infanzia. Oltre che un racconto storico, sarà forse un racconto di formazione!
Finalmente la definizione mi si fa più familiare, e il dizionario fa riferimento alla clessidra, dove la polvere ora è il tempo che passa, e che resta a indicarsi passato. Vedi Maria Zambrano, al primo piano. Voglio dire che se il tempo passa, e resta, quello che lascia è polvere, cioè è la polvere che solidifica e stratifica quel passaggio, rendendolo visibile, dandogli un corpo che andrà in guerra contro un tubo aspiratore e sarà ripulito dal mondo.
Continua lo Zanichelli: «Nel linguaggio ascetico, le spoglie mortali», da cui la minaccia biblica della polvere: «Polvere sei e polvere diventerai (Magari! – dico io)». Allora aveva ragione Petrarca? Veramente siamo «polvere et ombra?» O «dolore e noia la vita, mai nulla, e fango è il mondo», alla Leopardi? Comunque no, la polvere non è l’oblio, non credo, non mi va. Semmai il contrario.
La sindrome di Ulisse dice che il male del nuovo secolo è il desiderio di appartenenza che si sgretola nella dislocazione, sono le radici che franano nello sradicamento, è il silenzio che prende fiato nella lingua dello spaesamento, non è più l’emigrazione della fame, è il vagare di una sete di conoscenza, è il mare che culla un desiderio di casa, dovunque si decida di mettere casa. In mezzo a questo turbine, la polvere è un sedimento, il tempo, una durata che si posa sulle cose.
La sindrome di Ulisse, malattia del millennio: il trasferimento di competenze diventato legge di mercato porta con sé il trauma dell’abbandono costante. Il movimento è diventato un istinto compulsivo. Coazione a ripetere. Conosco la sindrome, Luigi Stop.
Ho vissuto per anni secondo la capacità di peso di una Roncato rigida, senza far mai in tempo a vedere la polvere sul manico. Andata e ritorno e poi andata, senza mai tornare sulla stessa zattera della partenza. (Ora siamo al romanzo autobiografico, ma non metterò date nel titolo, anche se vende di più).
Perché la polvere? Perché nelle categorie che abbiamo ereditato dalla mistica cristiana, la polvere è la morte, il ritorno al corpo nella sua accezione più bassa. Il corpo della vergogna, il nemico dell’anima. La carne soggetta a decomposizione, a data di scadenza, contro l’eternità dell’anima e la sua pulizia et(n)ica.
Allora devo per forza ripensare la polvere. La memoria. La permanenza nelle cose, lo stare come resistenza alla necessità delle migrazioni. Il rimanere. La certezza del quotidiano: la polvere è un esporsi alla durata, e non è affatto una debolezza, semmai il suo contrario. Un piacere che si impara con l’età adulta.

Peter Handke. “Elogio della durata”.

Elogio della polvere contro il “nuovo che avanza”. Pietro Ingrao era molto meglio di Berlusconi.
Del resto, il revisionismo “rispolvera”, mentre l’etica ha un legame con la memoria. La polvere non è l’oblio, anzi il suo opposto speculare.

In ogni viaggio c’è un desiderio di polvere come se fosse una funzione vitale. Una necessità inconfessata di poter riposare, di fare casa. Di smettere la navigazione.
Particelle incoerenti. Che a volte si posano su un certo suolo.
Polvere.

Avere una figlia e chiamarla Alice. Alice nel paese delle meraviglie. Un mondo fatto di isole a cui tornare.
Ulisse.

Siamo davvero polvere, ma da vivi.
Non a caso John Fante, figlio di emigranti, scrisse un libro che si chiama “Chiedi alla polvere” e che si chiude all’inizio di un deserto. C’è da pensare...


Su Paola D'Agostino
Una sorta di manovale delle parole: le insegna, le traduce, le scrive. Nel 1998 si è laureata in Lingua e Letteratura Portoghese all’Orientale di Napoli, con una tesi sul “Libro dell’inquietudine” di Pessoa. Dal 2000 risiede in Portogallo, e dal 2002 insegna all’Istituto Italiano di Cultura di Lisbona. Ha curato l’antologia “Dall’Asilo dell’Invisibile” (Napoli, 1998) e pubblicato testi di narrativa e critica letteraria. Ha collaborato alla drammaturgia dello spettacolo “A árvore do Tenéré” (regia di Luca Aprea, Lisbona, 2002). “Largo delle necessità” è il suo primo romanzo.

Sulla rubrica Squarci
Se la scrittura si serve di aghi e coltelli, se punge e lacera, se ogni pagina apre un varco in mezzo all'ovvio e al non detto, se la ragione ha bisogno di attimi di illucidità, se ogni testo si apre su un paesaggio interiore, se è un buco della serratura da cui spiare il mondo, se duole, se è una lama nella carne, se è una trama interrotta in un punto a caso, se la narrazione si spezza come un canto, se è una dissonanza, se semplicemente siete curiosi di sapere chi siamo. Estratti, ferite, fenditure di scrittura, un modo per sentire i nostri silenzi e leggere tra le righe di ciò che abbiamo in cantiere.

Questo freddo, di Paola D'Agostino (I Coltelli, 2012)
Largo delle Necessità, di Paola D'Agostino (I Coltelli, 2005)