Viaggi e scritture di viaggio | giovedì 3 novembre 2011

Luciano Zaami

Ricordi ungheresi

Condensare in poche righe un’idea non è mai cosa semplice, eppure il ruolo dello scrittore è anche questo: mettere ordine nei propri pensieri in modo da renderli coerenti e organici.
Inizio parlando di un’idea, perché il viaggio questo è, una semplice idea, è l’idea che ci portiamo dentro, e che ci facciamo di un luogo ancor prima di averlo visto. L’insieme di notizie, di immagini, e di aspettative: questo è un viaggio prima ancora di diventare tale, è ciò che noi ci aspettiamo che sia, è una semplice idea.
Poi c’è l’idea che ci facciamo durante la visita: ciò che prima avevamo costruito nella nostra mente, viene adesso smontato e rimontato, con tutte le delusioni del caso. Ciò che adesso notiamo, una volta entrati nella realtà del viaggio, sono le distanze, il tessuto urbano, l’altezza dei palazzi, e la vita che scorre nella sua normalità, perché in fin dei conti, per quanto un luogo ci appaia fatato, una volta lì, non è né più e né meno dissimile da casa nostra.
Ma poi c’è una terza idea del viaggio, ovvero quanto ci rimane al nostro ritorno, quell’insieme di ricordi che lentamente prendono forma nella nostra mente. Lo sporco va via, e resta un luogo ideale, qualcosa di tanto irreale quanto l’idea che avevamo prima di partire; ma idealizzare un posto fa parte del gioco, serve a rendercelo unico, indimenticabile, perché adesso abbiamo dato il giusto valore alla nostra esperienza.

Ora, dovendo fare un quadro di ciò che per me è ed è stata Budapest, l’impresa in sé risulta ardua e forse vana. Il mio primo viaggio fu nell’estate del 2000, e da allora sono tornato nella capitale diverse volte, per periodi brevi e lunghi. Credo, in totale, di aver trascorso lì cinque anni della mia vita.
Quindi per me, l’Ungheria non è solo un posto di passaggio, ma un luogo dell’anima, la mia seconda casa, è quella Nazione dove sogno sempre di tornare a vivere, ed è il paese da cui fuggo, perché per me è perfetto, e quindi rischierei di trasformarlo nella mia casa, con tutti gli annessi e connessi.

I soggiorni lunghi sono stati in tutto cinque, e andavano dai quattro mesi ai tre anni. In ogni viaggio si è formata in me una Budapest diversa, perché diversa era la realtà in cui mi trovavo immerso, diversa la mia abitazione, diverso il mio ruolo e stato d’animo.
Forse la più bella è la Budapest del mio primo anno, il 2000. L’Unione Sovietica era già caduta da tempo, eppure restava molto di quel sistema durato per oltre quarant’anni, quel velo malinconico e triste fatto di vernice laccata nei corridoi dell’Università, di auto Trabant che ancora affollavano le strade, delle facciate dei palazzi ancora sporchi. Quando arrivai, ricordo che l’unico monumento che era stato restaurato era il Ponte delle Catene. Adesso invece il centro è stato ripulito, la città appare meravigliosa, ma forse priva di quel fascino decadente che la rendeva unica.

C’è poi la Budapest del 2003, già cambiata. Soprattutto notavo le auto nuove di zecca sfrecciare per le strade, non importa che la gente le avesse acquistate a rate. L’Occidente era arrivato e tutti ne volevano una fetta.
Io, come sempre, restavo ancorato ai miei palazzi del quartiere ebraico, la mia piccola isola nell’isola, quel quadrilatero abitato dagli Ebrei, gente splendida che mi avevano accolto nella loro comunità invitandomi a scoprire un pezzetto del loro mondo.

Dei miei soggiorni ricordo i mercati rionali, pieni di frutta triste, sciupata, di limoni quasi ammuffiti provenienti da chissà quali scarti dei mercati dell’Europa dell’Ovest, ricordo i cieli alti e tersi e il freddo entrarti nei polmoni, ricordo le infinite camminate su e giù per le colline di Buda, a godermi i colori dell’autunno, quei colori assenti in Sicilia perennemente baciata dagli alberi sempre verdi.
Ricordo le linee dei tram che dal centro giungevano in periferie anonime, invase dai palazzoni costruiti durante il socialismo, quei tram pieni di anziani, legati alle loro buste di plastica e ai loro ricordi.
Allora passavo le mie giornate al dipartimento di Mongolistica, a godermi la compagnia dei libri che assediavano la piccola biblioteca dove potevo finalmente trovare tutti i testi dedicati ai popoli nomadi e all’epopea di Gengis Khan. Studiavo il mongolo attraverso libri di grammatica scritti in tedesco, e vagavo da una biblioteca all’altra in cerca di testi da fotocopiare e conservare.
Sono stati anni di vero nomadismo urbano, mi trovato all’estero, a fare ricerca sui popoli nomadi, in una nazione fondata da nomadi! Non potevo chiedere di meglio! Ero esattamente dove volevo essere!
Frequentavo la biblioteca dell’Accademia delle scienze, quella del castello, della Central European University, la Szabo Ervin, e di altre Facoltà. Le giornate passavano in un intenso lavoro di ricerca e di attesa, di silenzi e passeggiate, di enormi solitudini e di viaggi su e giù per la città.
Forse il mio amore per Budapest deriva dal fatto che in quella solitudine in cui mi sono trovato a vivere, è stata la mia unica compagna. Vivevo parlando con la sua storia, i palazzi, i personaggi che avevano scritto le pagine di quella gloriosa nazione, conosco ogni vicolo di quella città, ogni pietra o linea dei bus, ero un passante muto che usciva la mattina di casa con l’unico impegno di dover camminare per far passare in fretta un’altra giornata vuota.

Ma Budapest non è stata solo la città della mia solitudine. C’è stata quella del 2006, della cattedra come professore di Storia e Cultura dei Popoli Nomadi all’Università Elte, era la Budapest del mio primo impiego in una multinazionale, lavoro che ho continuato a svolgere sino al 2009. Una nuova realtà, una città vissuta non da straniero, ma da membro attivo della comunità. Molti amici, colleghi, e tanti ricordi splendidi che davano un nuovo volto a quel centro che ha saputo cambiar identità mostrandosi sempre per quello che non era, ma che ogni volta si è lasciata amare come tenera amante.

Se guardo indietro, non riesco a fare una foto precisa di questa città. Davanti ai miei occhi scorrono i visi di tutte le persone conosciute durante i miei soggiorni, amici che ancora sono al mio fianco, e altri di cui non ricordo neanche più il nome, ma ognuno di loro è stato un tassello della mia vita, per un certo periodo ne ha fatto parte, e ha condiviso con me un pezzo di strada. Ora, non credo importi tanto che noi si sia ancora in contatto, credo che il vero tesoro risieda in ciò che ogni persona mi ha lasciato, nelle lunghe chiacchierate e nei momenti trascorsi insieme.

Adesso che sono in Sicilia, Budapest resta la città ideale, quella che ogni giorno smonto e rimonto nei miei pensieri, è la città dove sogno di tornare per poterla veder crescere; sì, perché come una figlia che non si vede per molti anni, assisto da lontano ai suoi mutamenti, e ogni volta che ci torno trovo una piazza cambiata, un monumento restaurato, e mi sento quasi in colpa per non esser stato lì, presente, durante un momento così importante per la mia città adottiva.

Ma forse tutta questa bellezza è solo una mia convinzione, un mio idealizzare un luogo esotico dove ho condiviso parte della mia vita. Forse Budapest è solo un’idea come un’altra, un’idea di un luogo che non c’è, eppure io ci sono stato, l’ho amata e ne sono rimasto rapito. Ho viaggiato al suo interno, sia nel tempo che nello spazio, ho assorbito la sua magia e l’ho eletta a dimora dello spirito. Del resto, ad amare un luogo non c’è nulla di male, e io ho scelto Budapest come patria adottiva e luogo in cui fuggire è sempre dolce.


Su Luciano Zaami
Nasce nel profondo Sud Italia, a Caltanissetta. Per caso e per voglia, si trasferisce nel 1997 a Napolilaurearsi in Lingue e Civiltà Orientali all’Università di Napoli “L’Orientale”. Dal 2000 comincia a frequentare l’Ungheria e Budapest. Trascorre così gli ultimi sei anni della sua vita in un continuo migrare fra il sud ed il nord dell’Europa. In perenne ricerca di una fissa e serena dimora, scrive soprattutto sulle sue esperienze di viaggio, fisiche ed interiori.

Sulla rubrica Viaggi e scritture di viaggio
All’inizio dell’ Odissea è l’invocazione del cantore alla musa affinché narri dell’eroe multiforme che “tanto vagò”, “di molti uomini vide le città e conobbe i pensieri” e “molti dolori patì sul mare nell’animo suo” (Odissea, I, 1-3). Viaggio e narrazione, viaggio e scrittura, sono qui apparentati, e diventano un unico modo per dire il movimento dell’eroe. Le avventure nello spazio servono a oggettivare e a rendere visibile l’avventura della mente e del cuore. L’iniziale invocazione del poeta trova una sua duplicazione nella reggia di Alcinoo, quando la regina chiede all’eroe di dire chi sia e da quale stirpe discenda. Alla domanda sulla sua identità Odisseo risponde: “Difficile raccontare, o regina, dal principio alla fine”: a ribadire che ogni viaggio è anche un racconto e che ogni racconto è anche il senso dei viaggi che ognuno compie fuori e dentro di sé. L’Odissea è il racconto di un narratore che “racconta come il viaggiatore racconta” (J.-L. Moreau, Odyssées, nel volume collettivo Écrire le voyage, Paris 1994, p. 37). Chi viaggia ha dentro di sé e davanti a sé la propria storia (nel doppio senso dell’accadere e del racconto), come colui che racconta è un vero e proprio viaggiatore nello spazio e nel tempo: “la letteratura non è che un racconto di viaggio. Essa consiste nell’esplorare le possibilità di narrazione…” (J. Roudaut, Encyclopædia Universalis, 1995 - XIX). "I più grandi geni hanno sentito la necessità di viaggiare; hanno compreso che era il miglior modo per perfezionare le proprie conoscenze" (J.-B. de Boyer, marquis d'Argens, Critique du Siècle, ou Lettres sur divers sujets, par l'Auteur des Lettres juives, chez Pierre Paupie, La Haye 1755, t. I, p. 194).

Enzo Cocco

Derive e approdi, di Luciano Zaami (Gli Ibischi, 2011)
D'amore e d'altro, di Luciano Zaami (Gli Scacchi, 2006)