Viaggi e scritture di viaggio | domenica 16 ottobre 2011

Irene Tortorella

Seoul mon amour

La Corea del Sud è quel piccolo pezzo di terra separato dalla Corea del Nord da un confine demilitarizzato solo di nome da più di 60 anni. È bagnata a ovest dal Mar Giallo, a est dal Mare Orientale (non chiamatelo Mare del Giappone o ve la vedrete brutta coi coreani) e a sud è separata dall’arcipelago nipponico dallo Stretto di Corea.
Seoul, città fondata agli inizi del periodo Choson in territorio ritenuto geomanticamente fortunato, è un luogo apparentemente banale, uguale a centinaia di altre città asiatiche. Metropolitane veloci e sicure, bettole in cui è possibile mangiare cibo asiatico a poche migliaia di won, luci colorate, tralicci cyberpunk e signori incravattati e ubriachi a qualunque ora del giorno e della notte. In questo scenario alienante ho girovagato in lungo e largo per ben 365 giorni della mia vita. Non conosco Seoul come le mie tasche, ma tra i grattacieli di Mapo-gu, il quartiere sopra il fiume Han dove vivevo, riuscirei sicuramente a ritrovare quel vicolo dove ho scoperto un ristorante di tagliolini nord coreani alle 14 di una domenica pomeriggio grigia e inutile.
Seoul, quando c’è il sole, cambia aspetto. Riesci a distinguere i colori, le forme, la gente sorride e nei coffee shop le coppiette fanno pace e si tengono la mano. Quando Seoul è grigia le ragazze mettono il muso, sanno quando è ora di smettere di fare le remissive e tirare fuori il loro bel caratterino che va oltre le cosce magre in bella mostra. Poi corrono, capelli neri e liscissimi, attraversano le strade di Seoul sotto la pioggia e la neve, l’I-pod che manda K-pop in continuazione, canticchiano e sono come tutte le ragazze del mondo, anche più belle.
“Io non ce la faccio più a vivere sotto un ombrello, il mio mondo finisce all’altezza dei miei occhi”. Ho pensato questa frase ogni mattina alle 7.30, ora coreana, quando mettevo le scarpe davanti la porta di casa e scappavo a scuola.
Il clima non aiuta certo Seoul ad essere meno nostalgica e pensierosa. Smetti di pensare solo quando parli coreano, sei troppo concentrato a non dimenticare il verbo giusto alla fine della frase. In quei momenti il cervello non considera più quanto ti manchino le polpette di melanzane di nonna Pina e un bacio vero di-chi-sai-tu: diventa pura macchina linguistica che deve provvedere a comunicare, a far arrivare un messaggio al destinatario. Non importa quanto tu sia stanca del riso, dei professori che parlano troppo veloce quando spiegano, del cielo nuvoloso e pesante come un blocco di cemento che ti sovrasta. Devi aprire bocca e parlare, fare in modo che quelle palline e quelle astine dell’hangul (l’alfabeto coreano, creato artificialmente dal grande re Sejong nel XV secolo) diventino suoni, dal significato corretto. Il cervello dopo qualche mese va in pappa. Ti ritrovi in silenzio per giorni, ad ascoltare musica a testa bassa dentro la puzza di aglio del percorso metro Daehung – Itaewon, dove cerchi di affogare tutta la tua frustrazione in ettolitri di soju, acquavite di riso venduta al conveniente store, 1300 won a bottiglia (meno di un euro e non aggiungo altro). Ma non funziona, tutto sembra storto, manca qualcosa.
Ho ucciso l’amore per Seoul ognuno di quei 365 giorni, per amore di una persona che ora non c’è più. Colpa della distanza, della Corea, di lui che non mi avrebbe mai seguito, viviamo in tempi in cui l’amore è virtuale, tiepido, e neanche il microonde Samsung può riscaldarlo. L’alienante Seoul mi ha resa ancora più affamata di emozioni e calore umano. Ora mi manca, come ti manca un figlio che non hai potuto crescere ma è carne della tua carne. Mi manca la zuppa di sesamo del ristorante vegetariano di Hoegi, mi mancano i fiori di ciliegio, mi mancano anche le nuvole di Seoul. A volte l’amore non è a prima vista, è quello che ottieni vivendo a stretto contatto con qualcuno, qualcosa, sono i ricordi che Seoul mi ha lasciato. È tutto quello che la quarta città più grande al mondo mi ha insegnato: oltre le nuvole c’è il sole e lo puoi vedere veramente solo se lo vuoi.
Mon amour Seoul, so che un giorno ci rincontreremo.


Sulla rubrica Viaggi e scritture di viaggio
All’inizio dell’ Odissea è l’invocazione del cantore alla musa affinché narri dell’eroe multiforme che “tanto vagò”, “di molti uomini vide le città e conobbe i pensieri” e “molti dolori patì sul mare nell’animo suo” (Odissea, I, 1-3). Viaggio e narrazione, viaggio e scrittura, sono qui apparentati, e diventano un unico modo per dire il movimento dell’eroe. Le avventure nello spazio servono a oggettivare e a rendere visibile l’avventura della mente e del cuore. L’iniziale invocazione del poeta trova una sua duplicazione nella reggia di Alcinoo, quando la regina chiede all’eroe di dire chi sia e da quale stirpe discenda. Alla domanda sulla sua identità Odisseo risponde: “Difficile raccontare, o regina, dal principio alla fine”: a ribadire che ogni viaggio è anche un racconto e che ogni racconto è anche il senso dei viaggi che ognuno compie fuori e dentro di sé. L’Odissea è il racconto di un narratore che “racconta come il viaggiatore racconta” (J.-L. Moreau, Odyssées, nel volume collettivo Écrire le voyage, Paris 1994, p. 37). Chi viaggia ha dentro di sé e davanti a sé la propria storia (nel doppio senso dell’accadere e del racconto), come colui che racconta è un vero e proprio viaggiatore nello spazio e nel tempo: “la letteratura non è che un racconto di viaggio. Essa consiste nell’esplorare le possibilità di narrazione…” (J. Roudaut, Encyclopædia Universalis, 1995 - XIX). "I più grandi geni hanno sentito la necessità di viaggiare; hanno compreso che era il miglior modo per perfezionare le proprie conoscenze" (J.-B. de Boyer, marquis d'Argens, Critique du Siècle, ou Lettres sur divers sujets, par l'Auteur des Lettres juives, chez Pierre Paupie, La Haye 1755, t. I, p. 194).

Enzo Cocco