Squarci | sabato 17 settembre 2011

Francesco Olimpico

Dal manicomio

Marzo 1976
“Sente l'assenza di un corpo immaginato dal suo pensiero.”
Queste alcune delle ultime parole che sentii pronunciare dall'ennesimo medico pronto ad ascoltarmi, a cercare di capire i miei pensieri. Forse sono davvero malato pensai!
Chissà forse sono malato nell’anima, o forse no, è la mia memoria a esser malata, a esser tarlata!
Oh mio dolce amore anche stasera ti ricordo, ti faccio vagare nei miei pensieri come un fantasma senza forma e senza voce, come la scia di un profumo che tutto pervade e inebria.

Aprile 1976
Vennero a prendermi il giorno di primavera! Mia madre aveva gli occhi velati di un pianto profondo, inconsolabile. La casa sembrava vuota, sospesa.
Gli infermieri vennero a prendermi con la forza, provarono a imprigionare i miei spasmi, portandomi via e avvolgendomi in una camicia bianca. Linda!
Urla.
Pianto.
Il mio dolore iniziò poi a diluirsi, le mie urla iniziarono a placarsi e i miei sensi mi lasciarono sospeso. Chiusi gli occhi addormentandomi in un oblio forzato, indotto. Voltandomi per l’ultima volta verso casa le palpebre si chiusero e su di esse, come fosse un calco, restò l’immagine di Giada che stringeva forte mia madre.
Vuoto.

Maggio 1976
In questo silenzio sono alla ricerca dei tuoi occhi, sono alla ricerca disperata della tua voce... e tu? Tu invece ti nascondi fra queste pareti, fra queste tende. Mi chiudi gli occhi e serri le labbra. Inseguo il tuo respiro e tu giochi con i miei sensi. Ti vesti di bianco e ti lasci attraversare dalle mie mani.
In questa stanza quando credo di esser solo, quando spengono tutte le luci e il bianco non m’invade più con tutti i suoi colori io, io vedo fantasmi, io vedo cose e persone che so che non sono qui! Io, io sento voci e suoni che so che voi altri non riuscirete mai a sentire. Io lo so, io lo so che tutto ciò non è reale, so che tutto ciò non appartiene a questo mondo ma perché allora continua a sussistere in me, nel mio profondo?


Settembre 1976
Ciak ciak...era il suono che sussurravo quando un raggio di sole entrava nella mia stanza, disegnava una pozzanghera di luce sul pavimento e io battevo i piedi. Nessuno schizzo di luce, la luce non si increspava, restava lì senza cambiare forma. Poi veniva il buio e quella pozza di luce pian piano scompariva, si asciugava, evaporava.
In bilico o in equilibrio in questa pozzanghera di luce, danzo, danzo con te... danzo con te, fantasma dei miei pensieri, dolce amore della mia memoria, della mia follia! Invitami ancora fra le tue braccia, invitami ancora sulle tue labbra non andar via, non lasciarmi! Danza ancora con me, lasciami inebriare ancora del tuo profumo e del tuo sguardo. Danza, lascia che le tue mani squarcino questo spazio, fendano come la lama di una spada questo silenzio, lascia che entri luce in questa stanza buia.
Mio dolce amore, i nostri corpi non sono altro che proiezioni del nostro pensiero che in questo riflesso di luce danzano come non hanno mai fatto, come non hanno mai osato.
Quante cose domina l’assenza...

Dicembre 1976
Il primo giorno che mi portarono al padiglione 3 tremavo, ero ansioso come non lo ero mai stato. Mi svegliarono la mattina presto, mi presero di forza. Cercai invano di liberarmi!
Mi fecero sedere insieme agli altri malati. C'era anche un bambino seduto in disparte, in silenzio. Credo avesse ancora più paura di me. Gli altri sembravano invece assuefatti, abituati o rassegnati a quell’attesa. Aspettai qualche ora fino a quando tutte le sedie di fianco a me restarono vuote. Erano entrati tutti e non era uscito nessuno. Nessuno era uscito da quella stanza. Avevo paura!
Venne il mio turno, mi fecero sdraiare su un lettino, pensai stessero per legarmi, invece fui solo attorniato da alcuni infermieri. Un medico mi bagnò la fronte e posizionò alcune strane ventose, poi il vuoto. Non ricordai più nulla, sentii il mio corpo inarcarsi, tremare, sussultare. Non so quanto durò quel vuoto, forse minuti, forse secondi, mi svegliai stordito in uno stato comatoso. I miei arti erano o sembravano indolenziti come se il sangue si fosse per un attimo gelato.
Quel giorno hanno provato ad operarmi l'anima, hanno cercato di strapparla, rivoltarla, sventrarla, dissanguarla. È possibile estirpare l'anima, come fosse un dente malato? È possibile lasciar il corpo inerme senza mente, senza coscienza? Provano a distillare la mente attraverso quelle correnti, provano a distillarne il male così da farlo andar via.
Ci provano in tutti i modi! Accade spesso, anche quando è il giorno delle visite, il turno delle mie visite!
Un medico viene qui, attorniato dai suoi adorati discepoli, e inizia a pormi le solite domande. Chiede poi ai suoi assistenti impressioni e delucidazioni sui miei silenzi. A volte si ferma solo cinque minuti e poi va via, passa di stanza in stanza, di padiglione in padiglione, altre volte mi fa chiamare, così che sono io a presentarmi nel suo studio. Siedo e aspetto, aspetto le sue domande, aspetto finisca di prendere appunti prima di cominciare di nuovo a parlare.
Osservo. Distratto racconto qualcosa che ormai non sembra più appartenermi. Non è la verità a venir fuori, è solo pura menzogna, si chiama adattamento. Mi adatto alle sue domande e conservo quel po' d'anima che mi è rimasta perché mi aiuti a sognare di uscire. Loro pensano di potermi curare assuefacendomi, pensano che basti cancellare, distruggere pian piano il mio dolore bruciando parti sempre più profonde del mio cervello.
Sento odore di bruciato quando entro in quella stanza del padiglione 3.
Sarà suggestione.

Aprile 1977
A volte ma solo a volte, quando questi farmaci non riescono più a fare effetto e, quando perfino la mia follia ha vergogna a mostrarsi, allora la mia anima trova uno spiraglio e torna nel profondo della sua coscienza. È allora che ricordo l'ultimo sguardo di mia madre fisso nel vuoto silenzioso e profondo, doloroso quanto un parto e, nel baratro del suo silenzio, le mie parole si gelano, restano confinate sul palato come note strozzate. Quel giorno di primavera fui strappato dal suo ventre e mi allontanai silenzioso dai suoi occhi. Mi allontanai silenzioso anche da te, mio dolce amore, l'ultima volta. Mi allontanai imprimendo i tuoi colori nei miei occhi, i tuoi profumi nelle mie narici.

Maggio 1977
Sono tornato al padiglione 3!
Il mio corpo torna a dimenarsi. La corrente mi attraversa l'anima! La corrente mi raggela il pensiero, la realtà cristallizza all'infuori di me e la mia follia dimentica per qualche istante la sua origine. La follia è come anestetizzata! Chiudo gli occhi e dimentico di esser nato. Mi sveglio lontano dai medici che mi hanno violentato con le loro cure.
Le scariche elettriche si sono esaurite, non hanno lasciato scie nel mio corpo. Credo di aver perso alcune delle mie cellule e i pensieri in esse custoditi. Col tempo finirò per non aver pensieri, non aver ricordi e anche tu, mio dolce amore, morirai rapita da quelle scariche.
Hanno spento le luci. Le voci di dentro iniziano a parlarmi, sussurrano il tuo nome. Attorniato da queste strane voci provo uno strano senso di terrore, di angoscia! Il respiro si fa debole e volo sulle tue parole. Lascio gli occhi aperti e quel velo d'acqua che li bagna rende le immagini più vive. Vengo travolto da immagini che non appartengono a questo tempo, chissà forse sono del passato, forse sono allucinazioni, sarà colpa di queste scariche ma è come se tu fossi qui, qui accanto a me circondata dal tuo mondo e tutto ciò che gli appartiene ti ruotasse intorno.
I pensieri si aggrovigliano, le tue parole mi ronzano nella testa, si muovono confuse, danzano, gridano e, io vorrei ubriacarmi di te, di me, non aver respiro, non aver paura. Vorrei ubriacarmi di te, di me per non aver parole, pensieri, ricordi, sogni. Tutto affogherebbe in te, nella sottile linea che demarca il tempo e lo spazio dal vuoto e dall'assenza.

Dicembre 1977
Prima di addormentarmi fisso le pareti bianche di questa stanza, sfioro con le dita la superficie ruvida di queste mura, chiudo gli occhi e ripeto a voce bassa il tuo nome. Qui si fa presto a esser chiamati matti, qui si fa presto a morire di follia.
Intanto, il tempo ha reso il tuo ricordo un cancro che si dirama e si diffonde silenzioso fra i miei pensieri, per fortuna questi farmaci diluiscono il tempo, diluiscono le tue assenze, cancellano le tue fantasiose presenze! Questi farmaci diluiscono i miei pensieri e il mio esser al mondo! Qui la realtà ha perso le sue radici, qui il sogno ha dimenticato il suo potere.


Su Francesco Olimpico
Nato a Nola il 15 marzo 1978, si è laureato nel 2002 in "Biotecnologie Farmaceutiche" presso l' Università "Federico II" di Napoli. Ora vive e lavora in Toscana, ama viaggiare e raccontare tutto ciò che per una surreale osmosi arriva alla sua mente.

Sulla rubrica Squarci
Se la scrittura si serve di aghi e coltelli, se punge e lacera, se ogni pagina apre un varco in mezzo all'ovvio e al non detto, se la ragione ha bisogno di attimi di illucidità, se ogni testo si apre su un paesaggio interiore, se è un buco della serratura da cui spiare il mondo, se duole, se è una lama nella carne, se è una trama interrotta in un punto a caso, se la narrazione si spezza come un canto, se è una dissonanza, se semplicemente siete curiosi di sapere chi siamo. Estratti, ferite, fenditure di scrittura, un modo per sentire i nostri silenzi e leggere tra le righe di ciò che abbiamo in cantiere.