Squarci | mercoledì 11 maggio 2011

Marco Tartari

Parole spezzate a metà

per Serena



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Disse la foglia al vento: “Insegnami a volare.”
(Palinuro, luglio 2007)


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Passi muti spezzano il tempo. Li seguo e arrivo a una strada tra i canneti. Oltre, c’è la spiaggia.
Le onde precipitano sulla riva con la disperazione di baci aspettati una vita.
(Santa Maria del Cedro, agosto 2007)


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Vorrei sapere cosa vuol dire vivere senza il peso di un cuore che ti galleggia dentro – che fa troppo rumore – che ti chiude la bocca, non le parole.
(Quarto, dicembre 2008)


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Titone [1]

Dove sono le tue labbra antiche, quelle labbra che pregarono per la fine degli addii?
Sei corsa ad addormentare le stelle, ad esiliare il tuo dolore sulle foglie?

(Lo sai, brilla di crudeltà ciò che non posso darti…)

Tornerai da me quando inaridirà ogni luce?
Tornerai, o dovrò aspettarti nella nuda prigione di un ricordo?
Tornerai qui dove nasce l’urlo del mare?
(Torre Gaveta , dicembre 2008)
[1] Titone era uno dei fratelli di Priamo. Venne rapito da Eos, la dea dell’aurora, e ne divenne l’amante (ebbero un figlio, Memnone, che fu il capo degli Etiopi durante la guerra di Troia e venne ucciso da Achille). Eos pregò Zeus di concedergli l’immortalità. Zeus l’accontentò. Ma Titone continuava ad invecchiare: il suo corpo era ancora quello di un mortale. Di questo mito sono stati tramandati due finali: nel primo, Titone viene abbandonato al suo destino; nel secondo è tramutato in cicala.


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Chissà se ricordi ancora le carezze che l’acqua scioglieva nei vicoli e la finestra di rami da cui guardammo la neve, ammantati dalle rovine del cielo…
(Roccagloriosa, gennaio 2009)


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Euridice
Forse, un giorno, ti racconterò tutti i momenti in cui non ti ho trovato accanto a me e semineremo con le nostre voci l’eternità.
(Paestum, gennaio 2009)


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Gocciolano via le colline, il cielo si schiude, pallide stelle sfumano verso giorni perduti.
Come teneri incensieri disperdono l’odore di un silenzio impossibile.
(Quarto, marzo 2009)


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Sera

La speranza è un volo e il cielo è perduto.
(Napoli, aprile 2009)


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Dalle sponde alle stelle sfuma il giorno (dov’è il trono sicuro dei tuoi capelli?). Rami stanchi aspetteranno l’alba.
Ancora una volta.
(Lago d’Averno, aprile 2009)


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Non una lacrima, né un sorriso. Solo una parola spezzata a metà. Gli addii dimenticano sempre l’ultimo bacio.
(Quarto, aprile 2009)


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Suoni incapaci di riconoscersi, strade oppresse dal fango, foglie picchiate dalla pioggia.
Dov’è quel sorriso sbocciato con la prima carezza?
(Quarto, giugno 2009)


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La scia dei tuoi respiri sul vetro appannato spezza ogni notte intere costellazioni. Alle mie spalle hai lasciato solo un’impronta: la più profonda, la più crudele – l’unica che ricorderò. Non mi resta altro che il tuo nome senza pietà. Ma io sarò qui, tra queste mura dimenticate, ad aspettarti. Per sempre.
(Karphì [2], settembre 2009)
[2]Karphì è un sito archeologico risalente all’epoca minoica. Situato sui monti Dikti, a Creta, venne scavato tra il 1936 e il 1937 dall’archeologo inglese John Pendelbury.


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Il lungomare affonda nel vento e nei passanti pronti ad amare l’autunno.
(Napoli, settembre 2009)


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Quella notte il buio si sciolse e scivolò sulle nostre bocche. Baci crollarono sulla curva dei tuoi fianchi, affamati di ombre e illusioni. Queste mani morirono sul tiepido silenzio delle tue gambe.
(Quarto, novembre 2009)


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Adhān [3]
Una voce in bilico oscilla sulle foglie. Tra di noi solo un soffio di luce e l’incanto del mattino.
(Famagosta, gennaio 2010)
[3] L’adhān è un rito islamico: dalla cima del minareto, il muezzin esorta i fedeli alla preghiera.


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Quando i nostri regni infelici crollarono contro le tue dita dolci e invincibili, fiorimmo e ci addormentammo tra cascate di silenzi.
Chiusi gli occhi per indovinare il profumo delle tue spalle.
E le ritrovai, calde come stelle antiche.
(Napoli, marzo 2010)


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Il 18 ottobre di due anni fa ci parlammo per la prima volta. Quelle parole conservano un segreto e ancora oggi profumano l’aria, tremano, si disperdono. Allora c’era un poeta innamorato, ora solo queste righe silenziose. Come te.
(Siracusa, maggio 2010)


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Mi chiedo se ritroverò mai in un tuo sorriso quella promessa lasciata in sospeso.
(Quarto, giugno 2010)


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Quante parole, quante notti scivolate oltre le tristi gambe del mare.
Ho sete di un ritorno ai giorni in cui il mondo era ancora giovane e le cascate si gettarono per la prima volta tra le braccia della terra.
(Marmari, agosto 2010)


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Omero

Cantai i sogni e gli incanti di eroi incatenati alla morte.
Cantai i giorni in cui pochi uomini crearono l’eternità e insegnarono agli déi immortali ad amare.
(Micene, agosto 2010)


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I ricordi bruciano l’inverno, ma queste parole non si arrenderanno al fuoco. Perché tu sappia che tremai quando i tuoi seni sbocciarono tra le mie dita.
Quando li bevvi lentamente, come acqua.
Quando la bocca impietrì sulla tua schiena sudata e piantò radice oltre ogni parola mai detta.
Quando non seppi implorare quell’istante perché durasse in eterno.
(Quarto, febbraio 2011)




Sulla rubrica Squarci
Se la scrittura si serve di aghi e coltelli, se punge e lacera, se ogni pagina apre un varco in mezzo all'ovvio e al non detto, se la ragione ha bisogno di attimi di illucidità, se ogni testo si apre su un paesaggio interiore, se è un buco della serratura da cui spiare il mondo, se duole, se è una lama nella carne, se è una trama interrotta in un punto a caso, se la narrazione si spezza come un canto, se è una dissonanza, se semplicemente siete curiosi di sapere chi siamo. Estratti, ferite, fenditure di scrittura, un modo per sentire i nostri silenzi e leggere tra le righe di ciò che abbiamo in cantiere.