Squarci | domenica 8 maggio 2011

Annarita Lamberti

Un pomeriggio d'estate

È un pomeriggio infuocato e sono tutta sudata. Sono distesa sul letto, sulle lenzuola di lino, il loro tocco ruvido sulla mia pelle umida, e mi muovo, rigirandomi, su tutta la sua superficie cercando uno spazio intatto dal caldo e dal mio corpo madido. Ho chiuso le persiane, ma i raggi roventi e affilati del sole penetrano ugualmente come il caldo del pomeriggio torrido di piena estate. Ora sono prona sul letto, avendone raggiunto il margine, le braccia giù, le punte toccano il pavimento, le gambe distese e leggermente divaricate, quanto il lungo caftano di lino leggero e candido consente, sotto sono nuda e il mio corpo langue per il calore. Ho scostato i capelli con un gesto stanco, ora le loro spirali precipitano nel vuoto: la nuca finalmente libera di respirare.
Non resisto, con un solo colpo nervoso mi rigiro ancora. Ora sono supina. Raccolgo tutte le mie forze e mi rialzo: cerco refrigerio sotto la doccia e nella fresca fragranza del sapone al caprifoglio. Quanto tempo ci sono rimasta? Non so più. Ho immaginato di una piccola cascata ai margini di uno specchio d’acqua verde smeraldo, un fiume oltre una barriera di rocce bianche e una vegetazione lussureggiante tutto intorno. Esco ancora grondante ma non serve che mi asciughi, le gocce evaporano al calore ancora forte del pomeriggio. Mi spalmo tutta di un fluido alle mandorle dolci, con ampie carezze a piene mani. Mi infilo un lungo abito bianco di cotone impalpabile, spalline sottili, la linea netta dello scollo quadrato corre parallela a quella che segna la vita alta sotto il seno, poi una lunga gonna, poco ampia, a balze fin giù a metà gamba. Calzo le ciabattine basse di cuoio rivestite di tessuto bianco e perline dorate. I capelli mi ricadono sulle spalle nude e sono quasi asciutti: i taltalim si gonfiano pian piano e “fanno dlin senza far rumore”.
Lascio la camera da letto e ti cerco.
Sei seduto davanti al computer a torso nudo, indossi un paio di pantaloni di cotone color tabacco e una cintura di cuoio. Sei scalzo. Sembra che il calore non ti tocchi: non una goccia di sudore, nessun segno di spossatezza. Il tuo corpo è solido, come sempre, è forte, non lo scalfisce il caldo, anzi sembri trasformarlo in energia.
Fumi e hai l’aria concentrata. Scrivi? Rileggi? Correggi? Lavori di lima?
Non m’importa, voglio solo che t’accorgi di me.
In silenzio mi avvicino alle tue spalle, mi chino a mordere il lobo del tuo orecchio, così carnoso e rotondo, ti lecco giù all’attaccatura del collo, sento il sale della tua pelle.
Con un gesto rapido e deciso mi afferri per un braccio e mi porti in grembo a te.
Ti sorrido e ti tolgo la sigaretta, che tieni inclinata nell’angolo della bocca.
Chini la testa verso il mio seno e mi mordi un capezzolo.
“Vuoi mangiarmi?” Ti domando.
La tua risposta è un gesto, come sempre. Mi sollevi tra le tue braccia e mi porti via.
Fa troppo caldo per andare a letto, questa stanza, invece, è fresca, ventilata, ombreggiata. Dalle persiane, appena accostate, si vedono stralci delle ortensie fiorite, della buganvillea abbarbicata sul pergolato, il fogliame degli agrumi e le cime dei cespugli di lavanda, che ho piantato sotto ciascuna finestra e in una grande vaso sul piccolo ballatoio della scala che porta in giardino, ci arriva il loro profumo fresco. Fa troppo caldo per la camera da letto e per il letto, ci allontaniamo poco e mi adagi sul tappeto, sul grande spazio vuoto tra i due divani in corrispondenza con la soglia, che dà sul giardino. La brezza leggera e salina ci accarezza, il profumo della lavanda ci inebria.
Quante volte questo tappeto ha ospitato il nostro confonderci l’uno nell’altra. A volte mi hai mangiato, a volte ricoperta di ondate calde di baci, a volte ridotta in schiavitù del tuo corpo e delle tue voglie. E io sono sempre il soggetto-oggetto della tua voglia di me.
Ora cosa vuoi? Mangiarmi? Inondarmi? Schiavizzarmi? Cosa vuoi ora?
Innanzitutto tu vuoi guardarmi. Ti piace vedermi immersa nel disegno elettrico del tappeto. La mia pelle chiara, sotto il vestito bianco che mi hai già sfilato via, la nuvola dei miei lunghi ricci ramati, sopra il celeste, il fucsia, l’oro e il blu del tappeto.
Io ti sorrido, distendo le braccia sopra la mia testa, piego le gambe per accoglierti. E tu vieni. Ti sfilo la cintura, ti sbottono i pantaloni, hanno tre bottoncini sul tuo sesso, no, sulla tua erezione. Li togli facilmente, sono un niente di cotone leggero, quei pantaloni, i boxer te li tiro giù io, che voglio afferrarti le natiche, e rigartele appena appena con le unghie, appena appena lunghe.
“Baciami” ti dico, con un tono supplice e divertito, giocando a fare la schiava che ruba il godimento che desidera, e tu mi baci. La tua lingua succhia la mia, la avviluppa, se ne impadronisce, poi trattieni tra le tue il mio labbro superiore e poi quello inferiore, e passi a un braccio, scendendo giù verso l’ascella e poi il seno. Stai per farlo ma io ti dico “succhiamelo”, con lo stesso tono di prima. Ti diverti anche tu in questo gioco tra noi, a chi fa prima a intercettare i desideri dell’altro.
Tuffo le dita nei tuoi capelli, ti accarezzo la testa e così ti blocco sul mio seno: “succhialo, succhialo, succhialo”, ti dico. Alla mia terza invocazione, ti sollevi e mi piombi sulla bocca, un bacio profondo e poi le tue labbra, perfette, all’orecchio vibrano: “Lascia fare a me”.
Il gioco lo conduci tu, non chiedo che questo, che mi esplori e mi capisci e mi conosci.
Faccio in tempo, però, a leccarti di nuovo sul collo, per sentire il sale ancora sulla tua pelle, nonostante la doccia. Chiudo gli occhi e ritorno alla nuotata di stamattina, quando insieme abbiamo nuotato e nuotato in quell’acqua di smeraldo fino a che non ci siamo voltati a contemplare la pineta, io poi ti ho abbracciato e avrei voluto essere nuda nel mare e nella morsa delle tue braccia.
Ma c’è un altro mare, adesso, che tu fai uscire da me. Sei immerso nella mia profondità, come se volessi raggiungere l’abisso più ultimo, e io mi inarco, avvicino i talloni alle natiche quanto più posso, mi faccio abisso in cui ti invito a immergerti: delfino nel mio mare. Ne riemergi per respirare e ti riposi sul mio grembo, il mio mare ha ammorbidito la tua barba, che ora non mi graffia più.
Ti accarezzo, il mio sguardo é dolce e incrocia il tuo, che è determinato. Io non trasgredisco e dico “sali” ma nella mia mente, e tu sali, sali, sali e mi invadi, mi prendi, colmi il mio abisso.
E confondi il tuo mare con il mio.


Su Annarita Lamberti
Annarita Lamberti (1971) insegna Lettere in un Liceo napoletano. Esordisce nella scrittura scientifica, dedicandosi per anni alle ricerche di geografia politica e umana con un approccio culturale e post-coloniale sulle tematiche urbane e sul rapporto tra letteratura e geografia. Nel 2005 ha conseguito il titolo di Dottore di Ricerca in Geografia dello Sviluppo all'Università “L’Orientale” di Napoli, discutendo una tesi sul rapporto tra arte e sviluppo urbano a Tel Aviv. Ha insegnato all'Università di Bergamo e ha pubblicato numerosi articoli su riviste scientifiche. Nel 2014 ha conseguito l’Abilitazione Scientifica Nazionale a professore di seconda fascia in Geografia. La sua passione per la letteratura l’ha portata a riscoprire i classici e a scrivere narrativa. OXP ha già pubblicato alcuni suoi racconti brevi.

Sulla rubrica Squarci
Se la scrittura si serve di aghi e coltelli, se punge e lacera, se ogni pagina apre un varco in mezzo all'ovvio e al non detto, se la ragione ha bisogno di attimi di illucidità, se ogni testo si apre su un paesaggio interiore, se è un buco della serratura da cui spiare il mondo, se duole, se è una lama nella carne, se è una trama interrotta in un punto a caso, se la narrazione si spezza come un canto, se è una dissonanza, se semplicemente siete curiosi di sapere chi siamo. Estratti, ferite, fenditure di scrittura, un modo per sentire i nostri silenzi e leggere tra le righe di ciò che abbiamo in cantiere.

La chiave falsa, di Annarita Lamberti (I Coltelli, 2018)