Squarci | mercoledì 13 aprile 2011

Annarita Lamberti

Gli stessi tempi, lui ed io

Sono uscita di casa alle 9. Intorno alle 12 ero all’aeroporto di Malpensa. Il volo per Lisbona partiva alle 14 e 30. Alle 18, ora locale, ho preso l’autobus per Obidos.
Oramai conosco la strada e il mio sguardo si orienta bene, nonostante qualche cambiamento, non ad Obidos, naturalmente, ma a Lisbona e lungo la strada. Laures e il suo modernismo vernacolare se la passano decisamente meglio. Quello strano paesaggio agricolo, dentro il quale scorre l’autostrada, è sempre più iperattivo: campi, frutteti, vigneti, boschi. E mulini per l’energia eolica, tanti più dell’ultima volta. Le pale girano veloci. Il paesaggio è agricolo e tecnologico allo stesso tempo. Segno che l’ibridazione funziona.
Mi sono messa vicino al finestrino, nessuno si è seduto accanto a me, un po’ perché c’è ancora tanto posto e poi io sono stata poco invitante. Un signore sembrava voler attaccare bottone ma io non ho sorriso come al solito. Non sono triste, ma sto bene così: da sola. Devo ascoltare me stessa, cosa ha da dire questa tipa smaniosa. Vorrebbe parlare con qualcuno in particolare ma non ce la fa e allora ripiega con me, è tanto importante quello che ha da dirmi che doveva farlo in assoluta confidenza: “per qualche giorno niente famiglia, vieni via con me, lontano.”
Appena sono scesa dall’autobus ha cominciato a piovere. Anche la prima volta Obidos mi ha accolto con la pioggia, sottile e fitta, penetrante, un cielo grigio che non lasciava sperare niente di buono. Poi, invece, è andata bene; sarà così anche stavolta? Ad ogni modo che piova o no poco importa. Sono attrezzata con scarpe chiuse e comode, ombrello, cappello e impermeabile. Viaggiare d’autunno ha i suoi vantaggi. Percorro sicura la rua dereita fino in fondo e poi guardo a destra: la Casa de Sao Thiago è sempre la stessa. La buganvillea del pergolato ha ancora qualche fiore residuo, violentemente fucsia, mentre la maggior parte, rinsecchita come carta, ha il colore del té, ma le foglie sono ancora verdi e tante. Entro in quel posto così familiare come se tornassi a casa dopo tanto tempo e con un sorriso aperto do il mio “Boa tarde” all’albergatrice di turno. Mi accompagna nella mia stanza rimandando a dopo la registrazione e mi prende di mano la valigia, prima che abbia il tempo di dirle “grazie, faccio da sola” è già nel salottino. Non posso che seguirla. La camera è bella, con la sua tranquilla eleganza di campagna, un po’ severa, le sedie e la toletta di legno scuro, un po’ romantica. Non c’è niente di lezioso, tutto è utile ma non manca di dolcezza. Il letto è in ferro dipinto, il copriletto di cotone ha un disegno con grandi rose rosse, come il lungo cuscino cilindrico.
Il mobilio non é molto diverso da quello che c’era la prima volta in cui vi avevo alloggiato.
La prima volta, non appena in camera, mi ero preparata un bagno caldo. Quella pioggia apparentemente leggera mi aveva infreddolita e i capelli erano tutti bagnati. Nella vasca pensavo a Jorge e al fatto che mi aveva accompagnato fino all’albergo, sebbene il suo fosse all’inizio del borgo, pochi metri dopo la porta principale. Avevamo fatto coppia fissa tutta la giornata. Ci eravamo conosciuti per caso. C’era così tanta gente in quella convegno, non l’avevo visto prima di quella mattina. Stavo cercando di sistemare la valigia nel bagagliaio dell’autobus, che ci avrebbe condotti nel field trip. “May I help you?”, “Oh, yes, thank you so much”. Poi cominciammo a parlare e ci sedemmo vicini nell’autobus. Mi raccontò di essere un architetto del paesaggio e di lavorare all’università di Porto. Si occupava della riqualificazione del paesaggio agricolo di una regione nel Nord del Portogallo, caratterizzata da un processo di destrutturazione economica e culturale. Durante il field trip fece ricorso a tutte le sue conoscenze di storia dell’architettura per spiegarmi i dettagli delle facciate delle chiese e delle mura dei castelli, mi parlò dei progetti di conservazione del patrimonio culturale sotto il regime di Salazar e del suo progetto di prendere un PhD in climate change. Era gentile e il suo naturale garbo era sostenuto da una educazione impeccabile quanto rara. Ed era bello. Un portoghese del tipo celtico: alto, biondo con gli occhi azzurrissimi.
Nel corso di una delle conversazioni di quella giornata itinerante mi aveva spiegato che a differenza degli spagnoli, focosi per via del sangue arabo, i portoghesi sono calmi, per via del sangue africano, che di certo aveva anche lui, come tutti da sud a nord. C’era uno studio che lo aveva confermato.
Per quanto si fosse definito tranquillo e pacato, non era incline a lasciarsi sfuggire una buona occasione o a perdere troppo tempo. Ne ebbi dimostrazione quella sera stessa.
Ero appena uscita dalla vasca da bagno, quando il telefono squillò. Era la reception. Il signor Jorge Barbosa chiedeva di potermi consegnare un portatile per provare la mia presentazione del giorno dopo. Chiesi di lasciarlo entrare: “Please, let him come in”.
Avevo presentato il mio paper il giorno prima. Quando entrò mi baciò sulla bocca. Immediatamente. Mi tolse il telo che avevo annodato sul seno e mi mise una mano tra le cosce. Mi penetrò con le sue dita lunghe, le sue mani perfette, poi le portò alla bocca e si succhiò indice e medio: “You taste good”. Mi eccitai subito e cominciai a spogliarlo. Pochi minuti dopo eravamo sul letto.
Avvinghiati ci ritolavamo, cambiando continuamente posizione in un gioco erotico a rincorsa, ci baciavamo con leggerezza, ci toccavamo, ci sfioravamo e ridevamo, eravamo allegri. Ma quando decise che era venuto il momento di fare sul serio, Jorge mi bloccò sotto di lui abbracciandomi forte, mi baciò profondamente e mi prese, senza lasciarmi la possibilità di esaurire la risata che avevo ancora in gola. Era deciso e forte. Lentamente mi liberò le braccia e potei accarezzargli la schiena, scendendo fino alle natiche e risalendo fino alle spalle dritte e larghe. Le sue braccia, era bello afferrarne i muscoli contratti e sfiorargli le gambe e le cosce con i piedi e le caviglie. Mi sembrava che mi entrasse in circolo, la sua pelle, la peluria bionda fitta e sottile, il suo odore leggero. Mi afferrò un seno con energia, me lo strinse nella mano, dell’altro invece si riempì la bocca. Poi riprese le sue spinte con un ritmo più serrato. Io piegai le gambe più che potevo e più che potevo le divaricai, così gli sarei sembrata infinita, profondissima, e avrebbe voluto venirmi dentro ancora e ancora. Quando arrivò si spinse tutto dentro di me, mi sentii invasa da lui. Si placò sul mio corpo. Rimase fermo qualche minuto, ancora dentro di me. Poi come se mi leggesse nel pensiero mi sussurrò all’orecchio: “Now, I take care of you”. Uscì da me e mi scivolò giù. Mi sentii succhiare, mi penetrava con la lingua adesso, andava in fondo e risaliva in superficie, si soffermava sul clitoride. Si teneva saldo sui miei fianchi ma ogni tanto mi accarezzava le cosce. Non c’era l’ansia di prima, questo era un gioco appassionato e cerebrale, un ossimoro di piacere pensato tutto per me. Arrivai in un graduale crescendo che mi colmava fino a traboccare.
Quando lo sentì, Jorge venne via. Si stese accanto a me, mi sorrise e mi prese una mano. Rimanemmo così non so quanto tempo, intanto parlavamo. Lui mi diceva quanto gli piacevo, come e cosa gli piaceva del mio corpo, e in portoghese, stavolta. Anche io tessevo gli elogi della sua ars amatoria, nella mia lingua.
Gli venne voglia di fumare. In camera non c’era nessun divieto esplicito, ma fummo prudenti e rispettosi. Ci sedemmo sui due sedili in muratura, che ancora attrezzano il vano della finestra. Io mi ero infilata una vestaglia, lui si era cinto i fianchi con il telo da bagno, che mi aveva tolto prima. Aprimmo la finestra e si godette la sua sigaretta in tutta calma. Eravamo uno di fronte all’altra e ci guardavamo, ci esploravamo, con leggerezza e gioia. Gli misi un piede sul telo in corrispondenza del suo sesso. Mi lasciò fare. Poi mi afferrò la caviglia e mi baciò la pianta del piede. Mi guardava tra le cosce. E fumava la sua sigaretta.
Ci rivestimmo e andammo a cena insieme. La nostra storia durò tre giorni di fila, poi il convegno finì e ci lasciammo, non prima che Jorge mi avesse sistemato nella borsa il suo biglietto da visita.
Non lo chiamai. Mi piaceva ma non lo amavo. Nel corso di quella giornata in cui lo conobbi non feci che pensare che fare l’amore avrebbe dovuto essere naturale e semplice come mangiare, dare soddisfazione alla fame dei sensi come a quella del corpo. Ed era andata così, avevamo gli stessi tempi Jorge ed io.


Su Annarita Lamberti
Annarita Lamberti (1971) insegna Lettere in un Liceo napoletano. Esordisce nella scrittura scientifica, dedicandosi per anni alle ricerche di geografia politica e umana con un approccio culturale e post-coloniale sulle tematiche urbane e sul rapporto tra letteratura e geografia. Nel 2005 ha conseguito il titolo di Dottore di Ricerca in Geografia dello Sviluppo all'Università “L’Orientale” di Napoli, discutendo una tesi sul rapporto tra arte e sviluppo urbano a Tel Aviv. Ha insegnato all'Università di Bergamo e ha pubblicato numerosi articoli su riviste scientifiche. Nel 2014 ha conseguito l’Abilitazione Scientifica Nazionale a professore di seconda fascia in Geografia. La sua passione per la letteratura l’ha portata a riscoprire i classici e a scrivere narrativa. OXP ha già pubblicato alcuni suoi racconti brevi.

Sulla rubrica Squarci
Se la scrittura si serve di aghi e coltelli, se punge e lacera, se ogni pagina apre un varco in mezzo all'ovvio e al non detto, se la ragione ha bisogno di attimi di illucidità, se ogni testo si apre su un paesaggio interiore, se è un buco della serratura da cui spiare il mondo, se duole, se è una lama nella carne, se è una trama interrotta in un punto a caso, se la narrazione si spezza come un canto, se è una dissonanza, se semplicemente siete curiosi di sapere chi siamo. Estratti, ferite, fenditure di scrittura, un modo per sentire i nostri silenzi e leggere tra le righe di ciò che abbiamo in cantiere.

La chiave falsa, di Annarita Lamberti (I Coltelli, 2018)