Poesie | domenica 6 marzo 2011

Carlo Di Legge

L'immagine

Qualche mese fa avevo già scritto questa storia – quando per una circostanza fortuita, la formattazione del mio computer, l’ho perduta. Eppure ero stato piuttosto accurato nel salvare tutto ciò che c’era, tranne questo.
Qualche giorno fa, di nuovo il computer mi ha abbandonato, questa volta all’improvviso. Il racconto si è salvato solo perché ne avevo stampato una copia. Sono quindi costretto a riscrivere, trascrivendo.
La mia sbadataggine? Mi sembra vero. Il racconto stesso, è comunque, riporta una esperienza limite ma importante perché credo mi abbia aperto lo sguardo a un’altra dimensione del mondo, questo mondo che noi crediamo sia comune e uguale per tutti.
Era il settembre del 2008 quando si tenne a Castel Sant’Elmo, la celebre fortezza spagnola che domina Napoli, una importante serata di tango argentino, il ballo che prediligo. La mia amica A. raggiunse il castello molto prima di me. Io vi arrivai verso mezzanotte, senza nulla sospettare di quel che era accaduto e che lei solo mesi dopo mi avrebbe raccontato.
Avvenne dunque, qualche mese dopo, di tornare sul castello in un nostro discorso. Mi aveva sempre colpito, anche per la sua imponenza, e sovente tornavo sull’argomento. Le domandai se sapesse che in quelle sale era stata detenuta Eleonora Pimentel Fonseca, tra gli altri del 1799, prima di essere giustiziata. A. mi rispose: - sì, l’ho vista. E io, quasi divertito: - ma è accaduto due secoli fa! Lei ribatté che lo sapeva. Ne fui stupito. A. continuò raccontando che, la sera della manifestazione finale, durante il ballo (eravamo in due sale diverse, unite dai corridoi), lei si trovava in una delle sale, quella principale; ma nella sala v’era come una specie di grande nicchia nel muro, una profonda arcata a tutto sesto, pochi metri alla sinistra di A., come si trova nei castelli e nelle costruzioni antiche. Nel viavai delle donne del tango e degli uomini e nella confusione del ballo, il rumore, le viventi presenze s’erano a un tratto come allontanati sullo sfondo della percezione, e in primo piano venivano dapprima altri suoni: come di ferri trascinati sul pavimento di pietra, o anche catene, e voci di persone, lamenti, e insieme voci imperiose, come di comandi e perentori ordini impartiti. Allo stesso tempo A. si sentì guardata – sensazione che avverte nella realtà, quando ciò avviene – e si voltò verso la nicchia che ho descritto, che era il punto dal quale sentiva provenire lo sguardo. La colpì la figura di una donna, a lei del tutto sconosciuta, ferma dentro l’arco incavato del muro, immagine molto evidente nella penombra dello sfondo. A. in particolare fu colpita dalla sua grande bellezza: bruna e giovane, grandi occhi di vivissimo sguardo, i lunghi capelli molto ondulati, quasi ricci, l’aspetto molto nobile e raffinato, quasi regale, un vestito elegante, scuro con pizzi, salvo una parte bianca intorno al seno; il vestito era tuttavia lacerato in corrispondenza della spalla destra.
L’immagine interagiva con A. attraverso gli sguardi e le espressioni degli occhi: sembrava la guardasse come per trasmettere un messaggio di incoraggiamento e di tristezza, volendo mostrare qualcosa. Fu allora che A. si avvide del sangue, molto sangue, il braccio destro ricoperto di sangue, e addirittura un piccolo lago, quasi una pozza, a terra sul pavimento vicino alla donna (dopo la mia ricostruzione A. precisò che il sangue proveniva dalla spalla, la destra). La mia amica provò simpatia e partecipazione per la sorte di quella donna, che non aveva mai conosciuto, ma che comprese fosse stata tragica; ebbe il senso, mi dice, della sovrana indifferenza al dolore, che in quelle condizioni un vivente doveva provare, ma che l’immagine non manifestava affatto, quasi a significare la propria natura estranea al mondo dei vivi. A. si sentì quasi rimproverata, a disagio e fuori luogo nella circolazione mondana, decisamente frivola, al cospetto dell’ estranea, perturbante apparizione. Come leggendole nella mente, la donna le sorrise; A. distolse lo sguardo per un istante. Quando tornò a fissare quel punto, la donna era scomparsa.
Il racconto, com’è ovvio, mi scosse. Tornato a casa, tardi, ero molto stanco; ricordo che invece di riposare andai a cercare, quasi febbrilmente, notizie sui casi del 1799 a Napoli, sulle uccisioni perpetrate dalle parti avverse e da Ruffo e dalle sue bande con la complicità di Nelson e degli inglesi. Trovai subito l’immagine di Eleonora Pimentel Fonseca: ma non poteva essere lei la donna descritta, perché risultava nell’immagine tramandata una persona matura, di corpo piuttosto pesante, e le notizie la descrivevano come una intellettuale di gran dignità e prestigio, ma non giovanissima – aveva oltre quarant’anni – al momento della morte.
All’apparenza non avevo concluso nulla: ma mi sovvenne subito l’altro nome femminile della rivoluzione napoletana, quello di Luisa Sanfelice. Di lei quasi non trovai immagini del tempo, che quindi fossero verosimili: i pittori ne avevano celebrato la figura e la fama, ma non l’avevano mai conosciuta, poiché erano vissuti dopo la sua morte, e tanto meno potevano conoscerla i registi dei film (più d’uno, scoprii) su di lei, e gli scrittori. Già, perché era stata celebrata come una figura molto romantica: coinvolta suo malgrado nel tragico epilogo del 1799, dove aveva agito per leggerezza e per amore di qualcuno della parte perdente più che per convinzione politica, come scrisse persino Benedetto Croce.
Ma gli unici tratti forse attendibili che trovai di lei erano molto simili a come l’aveva descritta A.: un volto ormai quasi cancellato ma di linee molto fini, capelli ondulati quasi riccioluti, neri e lunghi – coincidevano poi le notizie sulla grande bellezza, e sui costumi suoi molto liberi per l’epoca, tanto da destare indignazioni e gelosie mortali a corte, passioni forse non estranee alla sua morte.
Conclusi che, se veramente ad A. s’era mostrata l’immagine, questa non poteva che appartenere a lei, a Luisa Sanfelice. Continuai a cercare notizie sulla donna affascinante, dai libri e dal web: la vicenda e le circostanze della sua fine mi si chiarirono, come le più complicate e raccapriccianti. Semplificando, molto: era stata prigioniera a Castel Sant’Elmo una sola notte, quella prima dell’esecuzione che era avvenuta a Piazza Mercato, e la cronaca è molto nota. I terribili particolari dei minuti finali della sua vita, che suscitarono sdegno – si tramanda – anche tra i presenti, rimandano con grande precisione al sangue e alla ferita che A. aveva visto. Ma di dolore non v’era più traccia nell’apparizione: essa mostrava bensì sentimenti, ma rispetto al dolore era distaccata e sovrana.
Lessi che la notte della prigionia nella fortezza e le ore del primo mattino erano datate tra il 10 e l’11 settembre dell’anno 1800: dunque l’immagine, si potrebbe dire, aveva voluto mostrarsi alla mia amica A. quasi esattamente nell’anniversario della morte, 208 anni dopo, la notte di venerdì 12 settembre 2008, ricorrendo le ore in cui presumibilmente era arrivata al castello nel passato e vi era stata trattenuta.

Ci è accaduto di tornare in quei luoghi una volta, l’anno successivo. Ma quelle sale erano ora chiuse al pubblico. Tuttavia, costeggiando il muraglione esterno, a un tratto A. percepiva il tempo e i rumori arrestarsi, e nel contesto spazio-temporale stagnante prendevano campo voci e lamenti senza più tempo ormai.
Sono persuaso che quel luogo sia una specie di veicolo del tempo, come forse ogni luogo, o forse in modo speciale, ma solo per chi è in grado di percepirne il potere. Se fosse, bisognerebbe essere dotati di una speciale maniera del percepire. Mi domando, adesso, se questo sia valido per tutto il pianeta o solo per alcuni luoghi.
E poi: siamo abituati a collegare all’apparire – al fenomeno, cioè – una modalità di esistere, a meno che non si tratti del sogno, dell’illusione, dell’allucinazione; se le cose descritte fossero vere, come potremmo noi descrivere, oltre il fenomeno, quella modalità dell’esistere che persiste oltre i secoli e si mostra come ho descritto, sia pure attraverso il racconto di un’altra persona?
Se si vuol mettere in dubbio la verità del racconto, si può; certamente, anche il sogno, l’allucinazione, l’illusione appaiono, ma la realtà di quelle immagini non rinvia a un fatto che accade al di fuori delle immagini, come noi siamo soliti pensare quando ci riferiamo alla realtà; ma allora, in questo caso, come fare a dubitare delle straordinarie coincidenze che ho trovato, investigando su quanto mi è stato raccontato?

Quel racconto mi ha molto cambiato, come le vicende degli ultimi anni. Penso anche: è stato come se il mondo dei morti, attraverso questa incursione, volesse rivolgersi a me, dicendomi della sua esistenza; dal canto mio, da allora amo anche di più la vita, sebbene guardi diversamente a questo mondo: inclino più a credere, adesso, che il buon senso non basti, e neanche la filosofia, se non ammette il mistero.
In realtà tutto ciò che ci appare nell’esistenza quotidiana, e a cui dobbiamo prestare fede, per far fronte alle necessità dell’esistenza quotidiana, è strano e misterioso; e ancor più strano è ciò che noi chiamiamo il tempo. Basti riflettere alla stranezza di ciò che chiamiamo l’apparire e lo scomparire, il venire in essere e il cessare di essere; lo scomparire di qualcuno o qualcosa e il permanere di qualcun altro o qualcos’altro… mentre di chi o di ciò che era sembra non vi sia più traccia; eppure tutto è reale, e dobbiamo credervi; e poi molte cose scompaiono, e dobbiamo credere che siano state, dal momento che le abbiamo viste, o che altri le ha viste e ha testimoniato… e invece all’apparire di altre cose non crediamo, perché compaiono e scompaiono senza permanere, sicché, noi diciamo, sono prive di un supporto materiale; potrei continuare, ma intanto basta così. Forse le religioni colgono il mistero nell’esistenza quotidiana, senza riuscire a spiegarlo. Forse una spiegazione non v’è, nel senso che non possiamo pervenirvi.

5.3.2011


Su Carlo Di Legge
È stato a lungo in Puglia ma è nato per puro caso a Salerno, poi ha trascorso gli anni a trasferirsi per l’Italia. Serba uno scrigno incantato del passato e inventa cattedrali benevole per l’avvenire. Spera di essere, in questo, come tutti. Negli ultimi tempi dice d’essersi iscritto alla scuola del presente. Scrive di filosofia, di tango e di poesia, è vero, bisogna ammetterlo.

Sulla rubrica Poesie
A volte c’è un bisogno di sospensione. Di densità diversa. Di tempo trasognato. Di spazio poco arredato. Di un posto delle fragole nell’anima. Di silenzi gentili che non sono di solitudine, ma di rade presenze discrete. A volte c’è un bisogno di sorpresa, di lampi improvvisi, accensioni impreviste. C’è un bisogno di respiro irregolare, di battito lento. Di ricerca segreta tra le pieghe del sogno e le unghie della realtà. A volte c’è un bisogno di attesa. Di ricordo. Di sguardo lontano, distante. Di confini indistinti, di profili scontornati, nuovi. A volte c’è un bisogno di poesia. In quest’angolo di rivista se ne trova di nuova, di inedita, di molto famosa, di nascosta, di quella che addolora e di quella che consola. Basta cercare. Basta aver voglia di scoprire parole segrete. Basta trovare un piccolo tempo anche per la poesia.

Sentire il tango argentino. Dieci lettere e una poesia, di Carlo Di Legge (Fuori Collana, 2011)
Il candore e il vento, di Carlo Di Legge (Fuori Collana, 2008)