Squarci | sabato 25 ottobre 2008

Luca Cerullo

Le scarpe da corsa

L’estate era solo calore e noia.
Io al mare non volevo andarci. Faceva troppo caldo, una volta venuti fuori dall’acqua noi ragazzini dovevamo per ordine stare al sole. Ci mettevamo in riga, uno accanto all’altro, ad essiccare ed era una situazione sgradevole.
Il sale del mare scendeva lungo il corpo, si attaccava alla pelle, dava prurito, voglia di tuffarsi di nuovo in mare, liberarsi da quella vischiosa sensazione che ci avvolgeva subito dopo il bagno.
Il sole picchiava forte sulle nostre teste inumidite, la gioia e l’allegria del bagno venivano spazzata via da quegli interminabili minuti di disseccamento, in cui ci veniva di rimpiangere di non essere rimasti al fresco della nostra casa.
Dopo qualche minuto il fastidio passava, ma non per me.
Ci davano da mangiare. Seduti all’ombra, con i capelli tirati all’indietro per farli splendere al sole e i piedi affondati nella sabbia, ricevevamo le nostre merende.
Significava, inesorabilmente, non poter tornare a fare il bagno per altre tre ore o giù di lì.
Significava sole, sabbia e calore.
E non potevi allontanarti, non se non insieme agli altri. Non se non accompagnato dai cugini più grandi.
Eravamo quattro, loro due, i cugini, io e la mia sorellina.
La sorellina era di tre anni più piccola e a malapena capiva ciò che dicevamo, ma stava sempre con noi perché in spiaggia, almeno durante i primi giorni dell’estate, non c’erano bambini della sua età.
Quelle tre ore di attesa erano secoli. Non riuscivo a provare interesse per tutti quei giochi da spiaggia, per i castelli di sabbia, per la corsa delle palline, per qualsiasi altra cosa, meno che mai mi andava di dormire come facevano gli adulti quando ormai erano stanchi di leggere e rileggere libri estivi e riviste comprate a caso.
La sonnolenza era però un evento generale. In un attimo sembrava che l’intera spiaggia dormisse, abbattuta da un sole violento delle ore centrali del giorno. Tutti spauriti dalla luce, dal calore, timorosi di sudare di nuovo, impazienti di rituffarsi in acqua.
Erano quelli i momenti in cui desideravo che in spiaggia arrivasse lui.
Durante i primi giorni della nostra vacanza, quando ormai il bagno e il pranzo erano passati, mi avvicinavo annoiato a mia madre.
Mi piace ricordarla sulla sedia a sdraio a righe gialle e nere, una rivista in mano e due vistosi occhiali da sole.
-Mamma, quando arriva Gianni?-
Lei abbassava lo sguardo verso la mia esile figura, un sorriso come di curiosità.
-Sta lavorando, ma arriverà presto-
Ed io tornavo a giocare.
La risposta era sempre uguale, ma adoravo sentirmelo ripetere. Prima o poi Gianni sarebbe arrivato.
Anche la sorellina lo chiedeva, di tanto in tanto, di solito la sera quando mia madre la prendeva e iniziava ad insaponarla bene, dentro a una bacinella piuttosto grande che tenevamo in terrazza.
La mia sorellina nuda e piena di sapone glielo chiedeva con la sua voce fragile.
-Quando arriva papà?-
Mia madre, che di solito le cantava sempre una filastrocca mentre era intenta a farle il bagnetto, le dava la stessa risposta, più o meno.
-Papà sta a lavoro, arriva presto il tuo papà-
Nell’attesa di Gianni, mentre camminavo con i miei cugini, di solito al ritorno dal mare, mi fermavo davanti alle vetrine dei negozi sportivi.
Le scarpe da corsa luccicavano nei loro colori fantasiosi. Per me erano un sogno.
A quel tempo ci facevano andare in giro in sandali da mare, anche di sera, anche per casa. In vacanza non ci davano altro.
Comprare scarpe da ginnastica in un paese di vacanze, o anche solo guardarle, era per me la violazione di un codice.
Stavo tantissimo tempo a guardarle, il prezzo era insignificante, le divoravo con gli occhi senza desiderio di comprarle, le ammiravo e basta, e in quei colori, in quelle linee sinuose ed elastiche, rivedevo il passo rapido e atletico di Gianni, le sue infinite serie di scarpe, ogni settimana nuove scarpe, sempre più belle.
A mia madre non piacevano, lei predicava la libertà dei piedi, era estate, faceva caldo e i piedi dovevano stare al fresco, ma sapevo che Gianni la pensava diversamente, perché i piedi di Gianni avevano bisogno anche di correre veloci e per farlo dovevano essere protetti da una gomma morbida.

La sera ci portavano a prendere il gelato. C’era una gelateria in una traversa che aveva tutti i gusti del mondo. Noi piccoli ci sbizzarrivamo davanti al bancone scintillante dei gelati, estasiati da tanta bontà.
Potevamo prendere un cono piccolo, tre gusti, attenti a non sporcarci.
Poi camminavamo, qualche metro più in là degli adulti, per sentirci più grandi. Raggiungevamo una pineta non molto distante, finivamo il nostro gelato e partivamo alla ricerca di una fontanella dove lavare le mani che nonostante le promesse, erano sempre sporche di gelato. Quelle della mia sorellina, in particolar modo, erano sempre impiastricciate.
Dopo esserci asciugati, passeggiavamo per il lungomare, gli adulti si fermavano a guardare la merce sulle bancarelle, noi iniziavamo a inventare storie sulle navi del golfo, quelle che attraccavano per lunghi periodi, a volte anche per tutta l’estate e non abbandonavano la nostra vista.
La mia sorellina mi chiedeva sempre di inventarne delle nuove, mentre io invece volevo ascoltare i racconti dei miei cugini, che rispetto ai miei davano l’impressione d’essere molto più adulti, molto più razionali.
La storia per mia sorella me la tenevo per dopo.
Alle undici e qualche minuto eravamo a casa, io e mia sorella dividevamo un letto perché la casa era piccola e dovevamo entrarci tutti.
Iniziavo a raccontarle la storia che avevo in mente, lei mi prestava attenzione per i primi minuti, poi si addormentava con la sua mano nella mia e poco dopo girava la testa per difendersi dalla luce della lampada.
Io spegnevo tutto e mi mettevo a dormire, aspettando che finalmente, un giorno arrivasse Gianni.
Venne da noi in un giorno caldissimo. Era pomeriggio e noi stavamo in spiaggia, martoriati dal sole.
Non vidi la sua auto, venne in spiaggia a piedi, in lontananza vidi la sua sagoma inconfondibile e sentii che il cuore piano stava urlando tutta la sua gioia.
Ebbi l’impulso di correre ad abbracciarlo, ma dovetti tacere la mia allegria, c’era chi poteva farlo, c’era chi doveva farlo al posto mio.
Chiamai la mia sorellina, intenta a costruire qualcosa con la sabbia, le dissi che era arrivato papà.
Lei alzò gli occhi, vidi la speranza nel suo sguardo, vidi ciò che poco prima dovevo aver provato io senza che nessuno se ne accorgesse.
Lasciò il suo gioco, corse all’impazzata verso di lui, incurante della sabbia rovente sotto piedi.
Corse come chi sa di avere un posto sicuro in cui rifugiarsi. Gianni la prese in braccio, per qualche secondo furono una cosa sola, lontani in quel deserto che bolliva, lontani da me e da tutto il resto.
Poi, tenendola sempre in braccio, venne verso di noi.
Io mi alzai in piedi, pronto ad accoglierlo, il fiato tirato per gonfiare il torace, come a dirgli eccomi, sono pronto, sono cresciuto, lui si chinò per stamparmi un bacio sulla guancia. Avvertii il suo profumo da uomo mentre si calava, la sua camicia blù e i suoi jeans sapevano di città, di lavoro, di adulto.
Mia madre gli strinse una mano attorno alla vita, l’unione era ristabilita.
-Perché non ti metti subito il costume?- disse mia madre.
Intanto attorno al nuovo arrivato si era creata una folla, i parenti, i miei cuginoni e qualche conoscente, accoglievano Gianni con viva partecipazione.
-Quanto ti fermerai qui Gianni?- chiese qualcuno.
Lui fece scendere la sorellina, si tolse la camicia e prese a slacciarsi i pantaloni.
-Tanto, basta lavoro, sono in vacanza-
Era in costume, mi guardò.
-Si va a fare una nuotata? Che ne dici?-
Niente e nessuno mi avrebbero costretto a dirgli di no.

Il primo giorno disse di essere stanco e lo compresi. Si era fatto un viaggio in macchina estenuante.
La sera cenammo tutti insieme in terrazza, sentivo l’armonia dell’equilibrio, era una sensazione che nella vita difficilmente avrei ritrovato.
Dopo, lui e mia madre uscirono da soli, mentre io e la mia sorellina fummo spediti con i cugini e gli altri parenti in gelateria, con la solita promessa del gelato gigante.
Sulla strada per il ritorno, la sorellina non mi chiese la storia, sapeva che suo padre ne aveva di più belle, sapeva che non appena a letto, lui sarebbe corso da lei.
E così successe.
Gianni le stette accanto fino a che non chiuse gli occhi. Io ero in terrazza, appena fuori la nostra camera. Avevo paura, invidia, imbarazzo a stare lì con loro e avevo trovato in un libro la scusa per stare fuori al fresco.
Lui mi raggiunse qualche minuto dopo, vidi la sua ombra oscurare le pagine del libro.
-Domani ti va di correre?-
Io lo guardai, era grande davanti a me, lo sguardo deciso di chi sa sempre cosa fare, il corpo che emanava energia, tensione di ogni muscolo.
-Sì- dissi, racchiudendo in quelle due parole tutta l’attesa precedente a quell’istante.
-Ti ho portato delle scarpe- mi disse e mi tese un pacco di cartone.
Io l’aprii, emozionato, sentivo già l’odore fragrante della gomma nuova.
Erano bellissime, molto più belle di qualsiasi altro modello avessi visto e sognato nelle vetrine chiuse dei negozi.
-Ci vediamo nel pomeriggio, quando tutti sono al mare-
Mi salutò con una mano sul capo.
Mentre sentivo i suoi passi per le scale, mi chiesi se ci fosse un modo per non permettere a quell’attimo di cessare di esistere.

Faticavo a stargli dietro.
Ed era umiliante, perché sapevo che lui rallentava per me.
Vedevo il suo corpo maestoso, la sua schiena perfetta che oscillava ad intervalli regolari, le sue gambe tirate che si flettevano come archi e sentivo il mio corpo da ragazzino arrancare, soffrire, pulsare da dentro, protestare contro le mie pretese.
Non gli davo ascolto, proseguivo, affannosamente, ma ero lì, appena dietro di lui, ad inseguirlo quasi per paura che mi scappasse sotto gli occhi.
Iniziavamo col lungomare, poi salivamo su per la collina, addentrandoci negli anfratti più sconosciuti, scendendo strade e percorrendo sentieri di cui nemmeno sapevo l’esistenza.
Il sole nemmeno ci arrivava in quei luoghi, erano posti che avrei avuto terrore ad attraversare da solo, luoghi che avrebbero affollato i miei incubi, quando Gianni non ci sarebbe stato più.
Strade vuote, ululati del vento, gridi di uccelli, e il nostro passo deciso che rompeva l’assordante silenzio dei sentieri.
Le mie scarpe nuove luccicavano, io ero contento, in lontananza udivo, o forse solo immaginavo, il clamore delle spiaggia, la noia generale di tutti, i miei cugini intenti a litigare sulla propria forza, il sonno degli adulti così pigri e uggiosi.
Io invece ero lì, a correre contro il vento. Ero lì e nessuno mi avrebbe ricondotto su quella spiaggia.
Adesso, giunta l’ora del ritorno a casa, avremmo fatto la doccia uno alla volta, e aspettando il suo turno, Gianni si sarebbe detto fiero di me, rinnovando l’invito per il giorno successivo.
La mia estate era così appena iniziata, prima c’erano state solo noia e attesa, ora c’era la vita.

Anche di sera, tutto poteva cambiare.
Continuavamo a uscire con i cugini, ma c’erano sere in cui Gianni decideva di portarci fuori, me, mia madre e la sorellina.
Prendevamo la macchina e raggiungevamo qualche posto non lontano.
Erano serate speciali, in cui non sentivo bisogno d’altro.

Col tempo migliorai di molto la mia corsa, stavo al suo passo.
Facevamo lo stesso percorso, ma due volte e più velocemente e nel frattempo, mi ero reso conto di una cosa. Potevo parlare con lui, durante il tragitto.
Il mio corpo aveva risposto bene e mi aveva dato fiato abbastanza per poter scambiare due parole, sebbene lui mi rimproverasse di non parlare durante la corsa, di allenarmi al silenzio, alla conservazione dell’aria in previsione degli sforzi futuri.
Non gli stavo più dietro, ma gli correvo accanto. Fiero, la testa alta a guardare le stesse cose che guardava lui, dalla stessa prospettiva.
C’erano momenti in cui sembravamo la stessa cosa. E mi tornava in mente l’abbraccio che aveva dato a sua figlia. Ecco, quello era il mio modo di abbracciarlo, di fondermi con lui, di essere, per un attimo, in lui.
Le mie scarpe mi sembravano ogni giorno più belle, e quando si sporcavano di terreno o del verde dell’erba che calpestavamo, le pulivo fino a farle brillare con un vecchio spazzolino da denti. Mi mettevo in terrazza, quasi ogni sera e mandavo via tutti segni del tempo e della fatica dalle mie scarpe.

La sorellina ci chiese un giorno se poteva venire con noi. Io, me ne vergogno, la detestai.
Gianni era suo padre, ma in quel momento in cui andavamo sulla collina, Gianni era solo mio.
Lui sorrise, mi guardò, forse capendo il mio sentimento, si chinò verso di lei, in ginocchio.
Cara, sono cose per maschietti grandi.
E lo erano. Faticose prove della mia infanzia.
Ogni giorno ad augurarmi di farcela, di potergli stare dietro, di non mollare.
Ogni giorno, un piccolo esame, pur di vederlo quando stanco anche lui, si piegava sulle gambe e coi denti stretti mi guardava in tono complice.
Non volli mai mettermi sullo stesso gradino di mia sorella, non era la stessa cosa e lo sapevo. Ma sapevo anche che quando correvamo insieme, non c’era nulla che potesse dividerci.

Una mattina la luce del sole mi svegliò di colpo.
Il letto era vuoto, la mia sorellina era già sveglia.
Mi alzai dal letto ed andai in terrazza, accolto dalla luce rovente di un sole d’agosto.
Osservai le mie scarpe ripulite, fantasticando del pomeriggio, mentre una voce saliva dalle scale. Era la voce di mia madre.
Entrai di nuovo dentro, le cose di mia sorella non c’erano più.
Scesi di corsa le scale. Trovai mia madre seduta al piano di sotto, lo sguardo scuro.
La casa era vuota e dentro c’eravamo solo io e lei.
Gianni era andato via. Si era portato anche la sorellina.
Mia madre mi disse di sederle in braccio, così feci.
Il contatto con la sua pelle era fresco, i suoi occhi erano arrossati dal pianto.
Mi disse che avremmo superato anche quella. Che sarebbe passata.
Mi venne di crederle, ma dentro sentivo che qualcosa piano iniziava a morire.

Da quel giorno niente fu più come prima.
A correre non potevo andarci da solo, mia madre non me lo permetteva.
Dopo aver fatto il bagno, ci mettevano ad essiccare.
Le mie scarpe da corsa, avvolte nella confezione di cartone, iniziarono a prendere polvere.
Nel pomeriggio iniziai a concedermi lunghi riposini durante la fase di digestione.
Una volta sveglio, speravo di vedere la sagoma di Gianni che avanzava verso di me.
L’estate tornò ad essere calore e noia.
Ma in quell’istante in cui guardavo verso la strada con gli occhi ancora assonnati, sentivo che l’estate era soprattutto speranza.


Su Luca Cerullo
Luca Cerullo è nato a Napoli nel 1984, ma si dice flegreo, prima che napoletano. Si è laureato nel 2006 in “Lingue e Culture Comparate” all’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”, dove ha approfondito lo studio delle lingue romanze, in particolare dello spagnolo e del romeno. Scrive da sempre, scegliendo molto spesso i Campi Flegrei come teatro per le sue storie. Ha pubblicato Racconti invisibili (Aletti 2007). "Terra di luci e di fantasmi" è il primo libro dedicato alla sua terra.

Sulla rubrica Squarci
Se la scrittura si serve di aghi e coltelli, se punge e lacera, se ogni pagina apre un varco in mezzo all'ovvio e al non detto, se la ragione ha bisogno di attimi di illucidità, se ogni testo si apre su un paesaggio interiore, se è un buco della serratura da cui spiare il mondo, se duole, se è una lama nella carne, se è una trama interrotta in un punto a caso, se la narrazione si spezza come un canto, se è una dissonanza, se semplicemente siete curiosi di sapere chi siamo. Estratti, ferite, fenditure di scrittura, un modo per sentire i nostri silenzi e leggere tra le righe di ciò che abbiamo in cantiere.

La soffitta (eBook), di Luca Cerullo (I Coltelli, 2009)
Terra di luce e di fantasmi, di Luca Cerullo (I Coltelli, 2008)