Squarci | lunedì 25 giugno 2007

Teresa Di Rosa

Camelia

- Come ti chiami? –
- Camelia –
- Come? –
- Camelia –
Sorrise consapevole della mia sorpresa. Ricordai Dumas figlio.
- Ai tuoi genitori piaceva “La signora delle camelie”? –
- No –
La osservai. I capelli erano biondi, lisci ed erano raccolti in una coda bassa. Gli zigomi erano alti, le labbra carnose. Gli occhi ricordavano due mandorle.
- Tua madre era giapponese? –
- No –
- Tuo padre? –
- No. È per via del soprannome della camelia? –
Mi chiesi di che cosa stesse parlando.
- La rosa del Giappone. È il soprannome della camelia. –
- Davvero? Non lo sapevo, ma non era per questo. Il fatto è che il tuo nome… -
- …non è come un altro –
- Volevo capire –
Camelia sbadigliò nascondendo la bocca dietro una mano. Notai che era affusolata.
Continuai le mie domande che, ripensandoci ora, seguivano uno schema simile a quello degli interrogatori: deformazione professionale.
- Perché sei qui? –
Scrollò le spalle e ribatté:
- Perché sei qui? –
Risi.
- Sono qui per aiutare gli altri… -
- … e poi lo stipendio è più alto – aggiunsi dopo un attimo di esitazione.
Sembrò irritata e pensai che forse sarebbe stato meglio evitare l’ultima parte.
- Gli “altri”? –
- Sì –
- Gli “altri” hanno un nome. Una vita. –
Impiegai qualche secondo a capire il senso delle sue parole, e mi vergognai dell’espressione che avevo usato. Aveva ragione: “Gli altri hanno un nome…”.
- Hai ragione –
- È normale dimenticarlo a volte –
Le sue parole mi confortarono un poco. Ripresi:
- Perché sei qui? –
- Non volevo sprecare questa vita –
Mentre mi rispondeva un bagliore illuminò la stanza e fu solo allora che mi accorsi del colore dei suoi occhi. Viola.
- Sì, sono color ametista –
Rimasi sorpreso.
- Mi leggi nel pensiero?-
Toccò a lei ridere.
- Non lo sai, vero? –
- Cosa? –
- Perché ti chiami Camelia –
- Lo so –
Rimasi in attesa.
- Mio padre regalò un mazzo di camelie a mia madre quando seppe che era incinta –
- È solo questo? –
Si alzò per prendere la caffettiera e preparare un caffè. Guardò l’orologio sulla parete di fronte. Erano le tre del mattino.
- Decaffeinato?
- Cosa?
- Il caffè -
- No, sono siciliano. Caffè, caffè –
Caricò la moka mentre io non riuscivo a staccare gli occhi dalle sue mani.
- Siamo molto distanti? –
- Da Bassora? –
Annuì.
- Abbastanza. E comunque il viaggio sarà lungo dato che procederemo lentamente –
Mise la moka sul fuoco e tornò a sedersi.
- Sei un medico, giusto? –
- Sì –
- E sei qui con “Medici senza frontiere”? –
- Sì –
- Cosa, voglio dire, in che cosa sei specializzata? -
- Cardiochirurgia –
Rimanemmo in silenzio alcuni minuti, durante i quali Camelia si dedicò al caffè. Lo versò nelle tazze. Me ne offrì una mentre lei sorseggiava lentamente l’altra.
Un rumore di spari ci interruppe, facendoci istintivamente voltare nella direzione da cui sembravano provenire.
- Hai paura della morte? – le chiesi a bruciapelo.
- E tu? –
- Io sono un soldato. Sono addestrato, ma tu? –
- Mio padre era russo e mia madre cinese –
Non capivo.
- Mia madre morì poco prima della fine della Rivoluzione Culturale e mio padre venne giustiziato per alto tradimento –
Sorrise e bevve l’ultimo sorso di caffè. Appoggiò la tazza sul tavolo e aggiunse :
- Sono stata “rieducata” –
Capii.
- Come fai ad essere qui? –
- Sono scappata in Francia –
Guardai l’orologio. Le quattro.
- Fra poco tutta la caserma sarà sveglia. Partiamo alle sei –
- Lo so –


Alle 5:50 Camelia si stava dirigendo sul blindato che precedeva quello che guidavo. Un attimo prima di salire, si voltò verso di me e sorrise.
Eravamo a metà strada, il convoglio procedeva lentamente sotto il sole cocente, poi un boato e io mi sentii sbalzato via dal mio posto di guida.
Mi risvegliai in un letto d’ospedale e subito mi resi conto di cosa fosse successo. Un medico mi fu accanto in pochi secondi.
- Come si sente? –
Aveva un forte accento inglese.
- Dov’è Camelia? –
Feci per alzarmi, non ci riuscii.
- Non si muova, ha appena subito un operazione –
Solo allora mi avvidi di avere la gamba e il braccio sinistri ingessati e una vistosa bendatura sul torace. Il braccio destro era attaccato ad una flebo.
- Aveva diverse schegge nel torace che abbiamo rimosso, braccio e gamba fratturati e qualche escoriazione. Si è appena svegliato dall’anestesia. Si rilassi -
Per un attimo pensai che Camelia fosse stata uno scherzo dell’anestesia.
- Dov’è Camelia? –
Non volevo crederci.
- Chi è Camelia? –
- È un medico e stava sul blindato davanti al mio –
Il medico mi parve a disagio.
- Non lo so –
Rimasi in silenzio.
- Dove sono? –
- In ospedale –
Mi venne da ridere ma un dolore lancinante al braccio mi fermò.
- Dove? –
- In Kuwait City –
Mi sfuggì un imprecazione. Mi ricordai dei miei commilitoni.
- Cosa è successo agli altri? –
- È meglio che riposi adesso. Dopo, può chiedere –
Il medico si allontanò a passi lenti mentre io pensavo che era un pessimo segno. Si era innervosito e il suo italiano era peggiorato. Volevo sapere di Camelia. Trascorsi i giorni seguenti a cercare informazioni da medici, infermieri, militari, inservienti. Ogni informazione era un piccolo tassello di un puzzle e alla fine ebbi un quadro abbastanza chiaro.
Il convoglio era saltato su alcune mine. Erano quasi tutti morti.
Camelia era morta.
Tutte le persone sul suo blindato erano morte.
Seppi il suo cognome, L’vov.
Seppi che viveva a Poitiers.
Terminai la degenza e feci la convalescenza nella mia Palermo, assistito da mia moglie e rallegrato da mio figlio, Lorenzo. Un bambino allegro e sensibile.
Quell’attacco sulla strada verso Baghdad era lontano.
Come se non fosse mai avvenuto.
A Natale mi recai in Francia con la mia famiglia. Mentre loro erano a Disneyland, io presi un treno e andai a Poitiers.
Cercai la sua tomba. La trovai.
In un vaso accanto alla lapide c’era un mazzo di camelie. Sulla lapide c’era scritto:
«Camelia L’vov 1968-2006»
La toccai.
Piansi.


Sulla rubrica Squarci
Se la scrittura si serve di aghi e coltelli, se punge e lacera, se ogni pagina apre un varco in mezzo all'ovvio e al non detto, se la ragione ha bisogno di attimi di illucidità, se ogni testo si apre su un paesaggio interiore, se è un buco della serratura da cui spiare il mondo, se duole, se è una lama nella carne, se è una trama interrotta in un punto a caso, se la narrazione si spezza come un canto, se è una dissonanza, se semplicemente siete curiosi di sapere chi siamo. Estratti, ferite, fenditure di scrittura, un modo per sentire i nostri silenzi e leggere tra le righe di ciò che abbiamo in cantiere.

Di foglie rosse (eBook), di Teresa Di Rosa (Gli Scacchi, 2008)