Squarci | sabato 14 aprile 2007

Francesca Siciliano

Monogatari: Io, boccone indigesto (maggio 2006)

Non leggo se non il giornale, non scrivo, non ho un attimo o un secondo di vita mia, ma va benino, lontana da medicine, sostanze, e altro. Cerco una verticalità - un po’ obliqua - che mi risollevi dall'orizzontalità del mio elettroencefalogramma piatto. Come avessi vissuto in coma, avessi fatto danni in coma, e ora dovessi aprirmi alla realtà che s'è configurata mentre non c'ero.
Non molto d'intellettuale per ora. Una riorganizzazione pratica della mia vita: casa pulita, ordine al lavoro, orari e abitudini più precise e scandite, una certa cura del mio corpo. Più mi riempio di cose da fare meglio è, mentre tutto ciò che coinvolge una mia attenzione, una partecipazione più profonda, è attualmente accantonato, lontano.
Anche il giornale diventa a volte una lettura troppo impegnativa e da suddividere in fasi diverse della giornata. Cosa strana: mentre di solito cercavo molto compagnia, con una sorta di paura di star da sola, ora l'ansia s'è trasferita alla socialità e scappo da cose e persone come se ogni contatto con l'Altro m'allontanasse da me, mi facesse perdere il mio filo, e poi mi sentissi punto e daccapo.
Vorrei star bene, lavorare, ma non ci riesco. Mi barcameno nell'inutilità della mia vita solitaria, con scarsissima energia.
Mi manca sempre qualcosa, manco sempre di qualcosa, e qualcosa manca sempre. Un sottofondo di tristezza attraversa ogni piccolo slancio. Ho una specie di tremore dentro, un soffio di irrealtà che mi sposta dall'asse degli 'altri'.
Nessuno mi cerca, nessuno mi si affeziona, tutto è troppo veloce per essere capito o vissuto, e la corrente centripeta mi stringe nel mulinello come fossi una foglia che si posa dove capita e senza perché. Non riesco nemmeno a ritagliarmi 'qualcosa' di mio, come erano i libri, che correvo a casa per leggere, e per i quali scappavo dagli altri per sapere come andava a finire il romanzo di turno. Ora nulla: inizio una gran quantità di letture senza riuscire a 'restare' in nessuna. Così un po’ con tutto: inizi carichi di attesa che si dissolvono in una specie di disinteresse diffuso, in un'apatia senza inizio o fine. Faccio corpo con le lancette, vivo un po’ come i secondi che passano. Meccanicamente.
Dentro sento una rabbia, una forma di risentimento senza destinatari, un odio impreciso, un ribellismo del cuore come fosse un ragazzino a cui non comprano il motorino.

Scrivere mi sembra una bella cosa perché sarà innanzitutto terapeutica: potrebbe restituirmi un senso e una realizzazione. Sostanzialmente io vivo intervallando vita e morte, depressione e euforia. Scrivere è vita, e mi appaga.

Devo darmi una smossa: al momento, sono ripiombata nel nero più pesto, nelle dosi massicce di tranquillanti, nel fatto che in ultima analisi sono io la protagonista delle mie incapacità. Una Francesca fredda come un morto, più inutile di un minerale.

Il problema è essere dove sono, fare ciò che faccio, abitare il mio corpo , vivere la mia vita. Invece sono sempre altrove, distratta. La guida è una cartina di tornasole notevole: l’incapacità di concentrazione è pericolosissima. Guido la macchina e mi guardo i denti, vendo polizze e penso al dottorato, gioco e penso alle cose che farei se non stessi giocando, e mi chiudo nell’assenza, nella mancanza, e non faccio nulla. Mentre mangio vorrei bere, mentre bevo fumare. E mentre tutto sfugge, qualcuno mi ricorda che se non so badare a me stessa, se ancora non mi so tenere e con-tenere… Brancolo ancora nel caos, alla ricerca di segnali e di equilibri.

Penso al passato. Alla voracità, alla sete prosciugatrice che ha sempre accompagnato in genere le mie passioni. E mi viene in mente ciò che diceva un amico sul Mezzogiorno Arretrato e Bulimico: lui la chiamava ‘la fame storica’. Sosteneva che esiste una memoria della fame che supera la fame stessa, che fa sì che - anche soddisfatto il bisogno e appagato il desiderio - provoca ingordigia, e così il Meridione, a suo dire, morirà mortodifame per sempre. Spiegava così l’obesità dei quartieri spagnoli, le tavole strapiene di quasi tutti i meridionali degli anniottanta. E io pensavo a me e all’amore.
In un certo senso la mia bulimia e pseudoanoressia reale sono molto molto simili ai miei comportamenti innamorati, alla postura del mio sentire. O mi precludo tutto, o lo mangio voracissima, lo anniento in un boccone, mi deve entrare tutto in bocca insieme, non può essere fatto in parti, masticato, no! Devo assorbirlo come mangiano i serpenti, così dopo mi sale sullo stomaco, accuso il Peso e bloccata la digestione lo strabutto fuori. I miei periodi di acida castità, il vortice del calodimutande. Non una serena solitudine, ma periodi di rifiuto vero e proprio, dove i maschi sono maschi e mi fanno tutti schifo, perché non sono intelligenti, non hanno curiosità di capirmi e vogliono solo togliersi tutti lo sfizio per mandarmi a quel paese. La sequenza esatta della mia paranoia cristallizza, in legge eterna, la realtà. La realtà nel frattempo, per me, non esiste e s’addormenta perché da Provenzano a Gandhi sono tutti ignorati allo stesso modo: a nessuno una possibilità di vita.
Poi, nei periodi di ghirlande e di fiori, potrei vedere un giovane per strada e scorgere in lui uno sguardo strano, di quelli che noto raramente, e di lì iniziare a pensare che dev’essere qualcuno con chissà che storia, e perché quello sguardo; e scoprire poi che si chiama Pacciani. Il solito discorso antropologico dell’incontro con l’altro, del darsi incondizionatamente a favore dell’autoannientamento, come modalità diverse e uguali del non-incontro. E poi invece l’interpretazione, l’aprire la porta all’altro per lasciarlo entrare, farlo uscire e tornare dalle sue parti, andarlo trovare, a volte incontrarsi a metà via…
È confuso. È la fatica di tenere il passo alla corsa dei pensieri. E invece è così bello mangiare piano piano, alla giapponese, sentendo il profondo sapore dei cibi non unti e non salati. Mangiare masticando trenta volte ogni boccone, e la sana digestione. La rima baciata, sintomo di verità.

Ai miei occhi l’unico riscatto è quello dell’essere carina, che mi condanna allo sfruttamento sessuale, o dell’esser più intelligente e colta, che mi fa la barrierina d’orgoglio, e mi rende antipatica e talvolta più stupida e ignorante poiché, presumendomi così, non ho capito ciò che avrei dovuto capire. Quando mi sento carina e intelligente, mi sento più carina e più intelligente, e divento un treno di massima sicurezza: ho la sensazione di essere la più carina e la più intelligente, denigro gli altri e mi sento ‘buona’.
E, nel mentre, non capisco che succede, chi sono e che mi vivo.
L’unico obiettivo riuscito è stato, e per fortuna, quello di non provare sentimenti. Questa storia con V. mi ha riconsegnata a me. Invece dell’ oblio di me stessa per il raggiungimento della conquista dell’altro, la relazione con l’altro mi ha riaccompagnata da me e mi sono vista allo specchio. La luce addosso, ed è questo che non ho sopportato: l’immagine nitida.

Sto nel mio nascosto, e nel mio nascondiglio a mezza luce e sto benone. Ho bevuto vino e birra, ho fumato un 6-7 cannette nel giro d’un tre ore, e il cuore rallenta e la testa cammina, però sono serena. Se non c’è uno sguardo inquisitore, sto bene. E perciò voglio stare da sola. Se ieri sera non lo avessi fatto venire, sarei stata sempre bene e mi sarei risparmiata le ultime ventiquattr’ore di autoflagellazione, la storia sarebbe proseguita sul suo binario erotico che c’era e poteva continuare a esserci, io sarei stata io, e lui sarebbe rimasto lui, e tutti felici e contenti. E invece tutti mi criticano, e non vado bene a nessuno.
Sono abbastanza lobotomizzata e rincoglionita e mi fa male la testa. Voglio fumare l’ultima canna, l’ultimo sorso di birra fredda fredda e andare a dormire. E reduce come sono dallo sterminio dei neuroni degli ultimi incubi, dormirò come un orsofelice nei boschi.

La mia conflittuale storia d’amore con me stessa. Non riesco in ciò in cui tutti riescono: mangiare dormire lavorare baciare fare e dire. Io rincorro le gocce e il sonno: dalle sette di sera penso solo: è finita, ricetta, sonno.
Come devo fare per riprender quota? Togliere tutto da mezzo? E come faccio? Chimitiene? E che faccio mentre non mi drogo, guardo la televisione? L’unico imperativo è buttarmi fuori di testa. Perché mi sento sempre come stanca e vorrei solo riposare. Tranquilla, al sicuro. Ferma, e dentro casa mia dove non può entrare nessuno. E veramente l’unica certezza e l’unica presenza con cui faccio coppia da sempre è il fumo.
Neanche leggere o scrivere mi isolano tanto. Sono stanca stanca stanca.

Sole. Una Francesca assolutamente inedita: pacificata. La pace del corpo dilaga nella mente. Dentro, tutto scorre ordinato e silenzioso, come un flusso armonioso, come un’inondazione di sangue ossigenato, e vento nei pensieri, una rinfrescata generale.
Mi ha spento i focolari, l’incendio neurale.
Oggi potrei farei tutto, e se fossi tutti i minuti di tutti i giorni così, sarei una persona assolutamente serena, potrei accettare regole e lasciarmi scandire da ritmi. Per la prima volta mi vivo una cosa senza chiedere l’Amore. E non è ‘senza sentimento’: stando insieme si genera un campo emozionale forte, ma questa volta non voglio ascoltare parole d’amore, non ho richieste comportamentali né test psicoattitudinali. Vivere come fosse una cosa assolutamente fugace e transitoria, piuttosto che scatenarmi ansia mi tranquillizza e mi aiuta a vivermela meglio anziché peggio. Mi fa sentire più libera, ché pure se finisce va bene così, sono contenta. Se ora finisse pulita, sarei assolutamente in pace con me stessa per essere riuscita a comportarmi come volevo, a essere stata ‘normale’ e carina e non petulante e assordante.
A letto ero sola con lui senza i suoi e i miei fantasmi. La sua bellezza non minaccia la mia tranquillità, perché non me lo devo difendere. Spero solo sia sincero quando vorrà passare ad altro. Potrebbe esserlo perché è grande e sembra leale. Così devo pensare solo a mantenere e conservare il più a lungo possibile il fluido buono che mi è rimasto dentro.

Potrebbe essere che un po’ potrei starmi, al solito, innamorando. Piano, e mi brucio di paura. Però, giorno dopo giorno, mi sciolgo, mi apro, mi fido. Cresce l’intimità e cresce la paura di un intimità mal riposta.

Vorrei andare pianissimo, e pur apprezzando le sue marinerie le dilazionerei. Sono contenta sia partito per qualche giorno. E ho fastidio a sentirmi oggi una luce buona addosso, un senso di benessere derivato, e tutti che mi facevano i complimenti di quant’ero bella, e al lavoro è filato tutto liscio e ho preso un sacco di contatti buoni. Come se oggi tutti mi dicessero di sì.
Mi brucia che sia sempre un altro a riempirmi o a svuotarmi, che io non sia niente di mio e per me. E’ vero che alcune persone fanno bene come altre fanno male, no? Alcuni potenziano, altri depotenziano, è esatto? Sono sempre meno sicura sulla storia di letto, e già ora mi sento un po’ complicata dentro. E non mi ci voleva. Perché, ogni volta che finisco a letto con qualcuno, poi ci torno? Mai, dico mai, l’auspicata storia di una notte, quella della soddisfazione ormonale e dell’affrancamento mentale. No, sempre devo scadere nella chiacchiera, la telefonata, il ponte…. Vorrei trasformare ciò che è successo in qualcosa di non compromettente, dirci francamente che ci siamo avvicinati perché ci piacevamo, che ci siamo divertiti, che volendo si può continuare ancora un po’, ma che alla fine io penso bene di lui, lui di me, e si può restare amici e contenti. Invece ho paura che continuando ad avere a che fare, io poi non gli piaccia proprio più, e vada tutto in frantumi, e io ne uscirei con le ossa rotte. Ma sono pensieri e paranoie comuni, le mie?
Sono n o r m a l i ?
Mi sembra di abitare una specie di spazio nero e informe. Ed è veramente improbabile che qualcuno possa innamorarsi di me. Devo approfittare della suaassenza per dare aria al cervello, per non pensarci per un po’, per riacquisire tranquillità e solitudine. Quando si inizia a vedersi e sentirsi, è troppo difficile guardare i confini delle cose, si diventa leggermente astigmatici. In questi giorni devo fare la mia visita oculistica, devo correggere le sfocature, e risaldare le mura.
Al solito sembra d’andare in guerra… È normale?
Cervello in fibrillazione. Io non so, odio la miccia della paranoia che è sempre pronta a prendere fuoco dentro..
Una volta in piedi, mi sono trovata verticale in mezzo alle cose oblique, animate e minacciose, e tutte le cose fuori posto mi guardavano e mi venivano incontro non lasciandomi modo di muovermi, orientarmi, trovare direzione e via.
Vogliamo parlare del cibo? Ieri mi hanno detto: come stai bene, non ti avevo riconosciuta, ti sei proprio r i m e s s a. Rimesso mi sa di vomito, espressione che odio come ah stai in c a r n e. Orrore. Significa che ho perso il controllo, che non sono più capace di controllarmi e non mangiare, che sono debole, che non riesco a dare nemmeno alle mie gambe la forma che voglio, e se non riesco nella mia carne figuriamoci nella mia vita. Più mi vedo la faccia gonfia e sformata, che non si vedono bene le mandibole che stringono e le ossa un po’ sporgenti, più faccio cose strane.
Peso, mi sento un peso specifico che non accetto. Mi piace sentirmi leggera. Non mi stanco e sono veloce, e mi sembra che anche le cose che mi accadono le viva con leggerezza, mentre da leggera impongo di più agli altri il mio ‘peso’ interiore. Anche se agli altri non piaccio magramagra, il mio sentirmi bene fa sì che io mi proponga più sicura, e alla fine piaccio più che in carne. Volgare solo a sentirsi! Non mi verrebbe mai di dire a qualcuno che lo trovo in carne, meglio grasso, paffuto chessò...
E nei miei vortici tutto torna uguale, non cambia mai.
Se solo fosse sempre primavera, al mio cuore basta un raggio di sole. Vivo di sponde e di argini, io che di natura necessito di contenitori, perché tendo a straripare da sola. A causare deserto d’acqua intorno, ora devo costringermi a fare più che pensare.
La fine della giornata, sfinita.
Dormirò come un porcellino, spero risvegliarmi come m’immagino, e potrei. Ho bisogno di piccoli voodoo mentali per bruciare la zavorra e andare avanti, un potlach di neuroni. Per poter ricominciare.
Basta.
Basta.

Sveglia dalle quattro, altro che porcellino, ma lucida di malditesta, cervello centrifugato, maldistomaco, e di bisogno di normalità e igiene.
La sensazione sgradevole è questo intontimento. Mi sento poco intelligente, rallentata in testa e debole nel corpo: integrare con vitamine, Supradyn, qualcosa.
Lo stomaco in rivolta.
La faccia orrenda: una palla gonfia attraversata da due profondi buchi neri. Inespressivi e sofferenti.

I momenti in cui non capisco niente. Diventare le risate che si ride, i colori che si vedono, il posto in cui si è, la persona con cui sta, i vestiti che si indossano, le parole che non si pensano, ed essere niente dentro, nessun nocciolo duro ultimo, morbidi morbidi, essere tutto ciò che sta fuori e attorno e dentro, in armonia. Armonia. Parola chiave, chiavissima.
Rigorosi nella ratio, abissali nelle emozioni, chissà.

Respiro a fatica.
La stanza trabocca di assenza,
mentre si fanno sempre più nitidi
i contorni al neon
delle cose.
Luce fredda e la coperta
sulle spalle.

Solo stamattina camminavo nel sole
e sembrava
poter essere possibile.
Poi la notte:
è solo un riflesso,
un sogno,
la stanchezza.

Pareti
bianche come pupille
che girano
o incontri attesi e mancati.
Sempre tutto possibile.

Non ho voglia di scrivere, non ho voglia di nulla.
Ho voglia di nulla.

La giornata era iniziata con i postumi cui ho accennato stamattina, e il suo imperativo è stato di salvezza: controlla la voce, controlla.
Ho ripreso le redini, mi sono imposta una calma. Sto lavorando, e stasera voglio leggermi il testo, e pensarci un po’ su, da sola e con calma.
Fare silenzio dentro di me, impedire l'accavallarsi delle mie urla, iniziare dalla voce, dal tono e dalla scansione: parlare piano, pensare piano, fare piano. Non aver paura: non sta succedendo niente.
La mia incoscienza altro non è che l'altra faccia di ciò che mi domina: la paura. Sì, devo essere tremendamente paurosa.
Ci sto provando, davvero, e pero che qualcosa possa succedere, che su di me si possa intervenire. Non mi riesco a considerarmi un caso perso.
Mi ha scritto un amico:
Mi rendo ben conto che alla vivisezione tu reagisci male... ma tanto per cominciare questo è il mio metodo di cauterizzazione e catarsi.
Molti me lo rimproverano, ma io sono un distruttore, un mistico. Distruggo per andare avanti e cercare altro di meglio o di ignoto o di non accaduto (il wild blue yonder, lo splendido film di Herzog a cui anche tutti i no global si annoiarono, e che neanche tu
volesti venire a vedere... il mondo va da una parte, e io giusto nel senso opposto, mi dissi alla fine).

Ho replicato:

Forse ho sbagliato. Ero persuasa che corrispondere con te potesse essere di stimolo in una fase di riavvio mentale e creativo, invece al solito sortisci il tuo effetto depotenziante.
A differenza di te, io voglio sentire le cose, viverle e non scardinarle e basta, ché un viaggio nel mondo m'è dato e mi sento una persona e non un registratore di cassa.
Contano innanzitutto le mie emozioni, le conquiste della carne e dello spirito, molto più che quelle dell'intelletto. Tu, invece, fai di tutt'un erba un fascio, e sembri una falciatrice.
Ho qualche perplessità, forse per te sarà pure risolutivo, ma non credo che, facendo come te, vivrei meglio. Poi ognuno ha la sua vita e ne fa le polpette che preferisce, ma io ci voglio condimenti e sughi, aromi e spezie.
Tu sei un po’ anoressico e abdichi a favore dell'insapore, in tal senso, come temessi l'assalto del 'gusto'. Hai più paura di me.
Detto questo, se il nostro colloquio può fortificarci, farci star meglio, che sia, altrimenti, se deve depotenziare le nostre deboli correnti elettriche, lasciamo perdere come abbiamo fatto fin ora.
La vita della mente è l'unica che abbiamo, vero, ma deve nutrirsi di carne e sangue per non morire, per non spegnersi, per non consumarsi in un delirio solipsistico.
Per me il fatto che ti voglio bene, e dimostrartelo, restano eventi importanti. Più che sapere che tu mi sogni, il che non ha una presa sulla mia vita, non la migliora né la peggiora, non entra in contatto, non tange.
Con te resti tu e le tue teorie, i sogni e le illuminazioni, ma non tocchi mai niente e nessuno.
Te lo dico esclusivamente nella speranza che sia possibile invece un contatto.
Come vedi, sortisci sempre un 'effetto' su di me, non riesco mai, con te, a essere indifferente. Pensaci su, dimmi qualcosa.
Ma l’amico chiude così:
Fai parte del mondo che va nel senso opposto al mio. Buon viaggio, non ti mancherà la compagnia.
Depotenziante? Ma è qui tutto il punto. Non ti rendi conto, tu e il mondo, che un'emozione di tipo mistico, o un film di Herzog, ha una potenza e incandescenza mille volte superiore ai presunti sughi del mondo, e io ho scelto questo.
Ovviamente bisogna avere o coltivare e sviluppare un volume d'anima interiore, pagando tutto quello che ciò comporta. E’ un fatto che non si può spiegare perché si faccia. Con chi non lo capisce, è inutile stare a parlare. Teofano il recluso magari soffriva della sua reclusione (meno di me, che non credo neanche alla remunerazione divina), ma almeno ha aggiunto qualche istante di bellezza al mondo, di vera bellezza - ed è ciò che a me interessa.

SMS di sabato 10 giugno
Mi assale l’ansia. La paura di non saper interpretare le persone e consegnarmici lo stesso, infine di perdere sempre qualcosa, di me. Io, boccone indigesto.


Sulla rubrica Squarci
Se la scrittura si serve di aghi e coltelli, se punge e lacera, se ogni pagina apre un varco in mezzo all'ovvio e al non detto, se la ragione ha bisogno di attimi di illucidità, se ogni testo si apre su un paesaggio interiore, se è un buco della serratura da cui spiare il mondo, se duole, se è una lama nella carne, se è una trama interrotta in un punto a caso, se la narrazione si spezza come un canto, se è una dissonanza, se semplicemente siete curiosi di sapere chi siamo. Estratti, ferite, fenditure di scrittura, un modo per sentire i nostri silenzi e leggere tra le righe di ciò che abbiamo in cantiere.