Poesie | lunedì 12 marzo 2007
Franco Arminio
Il paese della cicuta
sospeso sulle argille
d’una vecchia collana
il paese perde le sue perle
frana.
*
l’autunno atteso si defila
poche nuvole basse e perdute
attraversano le vie si perdono
sui muri.
il giorno è presto chiuso.
in piazza il vento non abbatte
le figure il ferro battuto
della noia produce notevoli
armature.
*
disegnata a mano libera
l’adolescenza la vita
giovanile.
tante linee
nessuna prospettiva.
*
in piazza i vecchi stanno chini
senza dolcezza o ira.
il giorno porge il fondo
e si ritira.
*
mele marce, ragnatele
sull’anima tombale del paese.
urlano i cani
le faine passano sui cavi
sui tetti delle case.
*
in mezzo alle rovine c’è un pallore
aperto, disperato.
tutta la famiglia si stringe
intorno ai vetri
della cristalliera dentro
le tazze tra le ceramiche
e le bomboniere.
*
troppi se ne sono andati
e altri hanno in bocca la neve
al riparo dell’esistere o dentro
le sue uve nere. tetri, taciturni
gli usurai dell’obbedienza
dietro quattromila finestre morte
schiacciano le noci del loro sonno.
*
ci aspettano giornate come erbacce
nel paese che a lungo ci attorciglia.
qui l’esistenza è un recinto
sull’altopiano, una bestia
rivolta al buio, avvilita
fuori mano.
ora il paese ha molti posti larghi
ma gli occhi stentano a trovare
qualcosa che li riguardi.
*
il vento soffia
per un anno intero.
in mezzo ai sassi e ai cardi
fragole di cimitero.
*
a ottobre cerco sempre un po' di luce
quando ancora il bicchiere dell’inverno
non è capovolto sulla candela.
sono salito sull’altura
del vecchio cimitero.
qui hanno trovato la principessa
di bisaccia
la principessa dei cinquanta bracciali.
l’aria lieve
come l’erba
il cielo senza nuvole.
guarda lontano
guarda le macchine e le case
sulle vie della lana.
più tardi scendo
nella piazza dove i passeri
sono tornati
sui platani e cantano prima
di dormire.
contro questo canto
nulla possono le passeggiate
degli scontenti.
adesso neppure li saluto,
nego alla discordia
il mio tributo.
*
ci sono paesi da cui si entra e si esce
come porte a soffietto.
ma qui è un tiro al bersaglio,
chi è dentro è dentro per sbaglio.
*
questo paese fu impervio
e accogliente,
rughe, vicoli e trincee d’una profonda
pacata vecchiaia.
ora è un immenso deposito
di materiale edile
germinazione e refuso di forme mute
devote alla desolazione.
infime, intime inerzie
infinite ideazioni parassite
incuria e diffidenza.
ma qui, nell’empia congrega di clausura,
io resto e scrivo, a oltranza
con puntiglio e cura.
*
una ragnatela di silenzio e luce.
paese invaghito delle nuvole,
comunità che fu detta gentile
con le pietre scure del suo sorriso
imbevute nel gelo e nella neve,
comunità annodata e assopita
all’osso dei suoi tronchi nudi e storti.
qui a settembre si cambia geografia
il paese muove appena le labbra,
il vento ti lavora come un corvo,
in bocca il giorno punge come pula.
ma noi siamo per il vitto dell’altura
non per il mortorio della pianura.