Squarci | venerdì 21 luglio 2006

Francesca Siciliano

Dal diario di una fuga

Non leggo se non il giornale, non scrivo, non ho un attimo o un secondo di vita mia, ma va benino. Cerco una verticalità - un po’ obliqua - che mi risollevi dall'orizzonte dell'orizzontalità del mio elettroencefalogramma piatto. Come avessi vissuto in coma, avessi fatto danni in coma, e ora dovessi aprirmi alla realtà che s'è configurata mentre non c'ero.
Non molto d'intellettuale per ora: una riorganizzazione molto pratica alla vita: casa pulita, ordine al lavoro, orari e abitudini più precise e scandite, una certa cura di me come corpo. Più mi riempio di cose da fare meglio è, mentre tutto ciò che coinvolge una mia attenzione, una partecipazione più profonda, è attualmente accantonato, lontano...
Anche il giornale diventa a volte lettura troppo impegnativa e da suddividere in fasi diverse della giornata. Cosa strana: mentre di solito cercavo molto compagnia in genere, con una sorta di paura a star da sola, ora l'ansia s'è trasferita alla socialità e scappo da cose e persone come se ogni contatto con l'Altro m'allontanasse da me, mi facesse perdere il mio filo, e poi mi sentissi punto e daccapo.
Vorrei star bene, lavorare, non ci riesco. Mi barcameno nell'inutilità della mia vita solitaria, con scarsissima energia.
Mi manca sempre qualcosa, manco sempre di qualcosa, e qualcosa manca sempre. Un sottofondo di tristezza attraversa ogni piccolo slancio. Ho una specie di tremore dentro, un soffio di irrealtà che mi sposta dall'asse degli 'altri'.
Nessuno mi cerca, nessuno mi si affeziona, tutto è troppo veloce per essere capito o vissuto, e la corrente centripeta mi stringe nel mulinello come fossi una foglia che si posa dove capita e senza perché. Non riesco nemmeno a ritagliarmi 'qualcosa' di mio, come erano i libri, che correvo a casa per leggere, e per i quali scappavo dagli altri per sapere come andava a finire il romanzo di turno. Ora nulla: inizio una gran quantità di letture senza riuscire a 'restare' in nessuna. Così un po’ con tutto: inizi carichi di attesa che si dissolvono in una specie di disinteresse diffuso, in un'apatia senza inizio o fine. Faccio corpo con le lancette, vivo un po’ come i secondi che passano. Meccanicamente.
Dentro sento una rabbia, una forma di risentimento senza destinatari, un odio impreciso, un ribellismo del cuore come fosse un ragazzino a cui non comprano il motorino.
Ho una violenta nostalgia dell'Università, di quando ero brava, di quando la mia vita sembrava avere un senso e prospettive, alcune presenze, e c'erano le fotografie i film i fumetti tienamment officina napoli, odori, rumori, le luci del lungomare e il buio dei vicoli, l'odore di fritto e la puzza del traffico che copre il mare... ma anche il casino, la vita che ti salta addosso pure se stai morendo.
Qui è tutto uguale, mezzo vivo mezzo morto, non si capisce, ma non ti arriva e non ti tocca: la luce batte bianca e fredda su tutto, illuminando cose e case in egual misura, senza alcun riflesso, senza ombre, senza lasciar vedere niente. Non una - dico una - strada bella. Niente. L'unica cosa che questo luogo ti dica ossessivamente è: via, va via. E non sono riuscita a intessere nessun legame vero e valido, e resto ancora ancorata a una serie di desaparecidos.

(dopo qualche giorno)

Oggi, dimentichiamo cielo grigio e vita da sottosuolo, perché c'è un sole scintillante e penetrante. Sembra la Pasqua vera, del tempo in cui ero bambina.
Sto faticosamente ripristinando un nuovo equilibrio – instabile - che si nutre innanzitutto della 'stagione': così improvviso picnic e scampagnate, partite di pallone e corse nei prati.

Scrivere mi sembra una bella cosa perché potrebbe restituirmi un senso e una realizzazione. Sostanzialmente io vivo intervallando vita e morte, depressione e euforia. Scrivere è vita, e mi appaga. Ho risorse incredibili, una capacità di risorgere sempre e comunque dalle mie ceneri.
Sto provando anche a crearmi nuove amicizie, a far slittare in amicizia le conoscenze più recenti, ma nessuno risponde all'appello 'umano' , e sembrano preferire sporadici incontri sexy a modalità di compagnia e conoscenza che senza nulla chiedere potrebbero naturalmente trasformarsi in piccoli pilastri del quotidiano.
Non voglio rapporti passionali, non voglio né ardere né bruciare o incenerire. Vorrei piuttosto conoscere piano, lenta-lentamente, senza dover sortire necessariamente effetti, ma solo impegnarsi e rispettare, conoscere e vedere –così - come va a finire... Invece, per ora, nulla.

Il problema è essere dove sono, fare ciò che faccio, abitare il mio corpo , vivere la mia vita. Invece sono sempre altrove, distratta… La guida è una cartina di tornasole notevole: l’incapacità di concentrazione è pericolosissima. Guido la macchina e mi guardo i denti, vendo polizze e penso al dottorato, gioco con un bambino e penso alle cose che farei se non stessi giocando con lui, poi lui va via, e io mi chiudo nella sua assenza, nella ‘mancanza’, e non faccio nulla. Mentre mangio vorrei bere, mentre bevo fumare. E mentre tutto sfugge, qualcuno mi ricorda che se non so badare a me stessa, se ancora non mi so tenere e con-tenere…

Penso al passato. Alla voracità, alla sete prosciugatrice che ha sempre accompagnato in genere le mie passioni. E mi viene in mente ciò che diceva un amico di mia madre sul Mezzogiorno Arretrato e Bulimico: lui la chiamava ‘la fame storica’. Sosteneva che esiste una memoria della fame che supera la fame stessa, che fa sì che -anche soddisfatto il bisogno e appagato il desiderio - provoca ingordigia, e così il Meridione, a suo dire, morirà mortodifame per sempre. Spiegava così l’obesità dei quartieri spagnoli, le tavole strapiene di quasi tutti i meridionali degli anniottanta. E io pensavo a me e all’amore.
In un certo senso la mia bulimia e pseudoanoressia reale sono molto simili ai miei comportamenti innamorati, alla postura del mio sentire. O mi precludo tutto, o lo mangio voracissima, lo anniento in un boccone, mi deve entrare tutto in bocca insieme, non può essere fatto in parti, masticato, no! Devo assorbirlo come mangiano i serpenti, così dopo mi sale sullo stomaco, accuso il Peso e bloccata la digestione lo strabutto fuori. I miei periodi di acida castità, il vortice del calodimutande. Non una serena solitudine, ma periodi di rifiuto vero e proprio, dove i maschi sono maschi e mi fanno tutti schifo, perché non sono intelligenti, non hanno curiosità di capirmi e vogliono solo togliersi tutti lo sfizio per mandarmi a cagare. La sequenza esatta della mia paranoia cristallizza, in legge eterna, la realtà. La realtà nel frattempo, per me, non esiste e s’addormenta perché da Provenzano a Gandhi sono tutti ignorati allo stesso modo: a nessuno una possibilità di vita.
Poi, nei periodi di ghirlande e di fiori, potrei vedere un giovane per strada e scorgere in lui uno sguardo strano, di quelli che noto raramente, e di lì iniziare a pensare che dev’essere qualcuno con chissà che storia, e perché quello sguardo; e scoprire poi che si chiama Pacciani. Il solito discorso antropologico dell’incontro con l’altro, del darsi incondizionatamente a favore dell’autoannientamento, come modalità diverse e uguali del non-incontro. E poi invece l’interpretazione, l’aprire la porta all’altro per lasciarlo entrare, farlo uscire e tornare dalle sue parti, andarlo trovare, a volte incontrarsi a metà via…
È confuso? È la fatica di tenere il passo alla corsa dei pensieri. E invece è così bello mangiare piano, alla giapponese, sentendo il profondo sapore dei cibi non unti e non salati. Mangiare masticando trenta volte ogni boccone, e la sana digestione. La rima baciata, sintomo di verità.

Vorrei scomparire… solo scomparire. Senza una parola e soprattutto senza uno sguardo. Mi sento costretta nella mia carne, avverto la pressione della carne contro le ossa, e sotto i nervi, le giunture e tutto che vuole uscire, prendere altre direzioni, allontanarsi da me. E il mulinello nella testa. Il frullatore, la centrifuga, quella corrente elettrica e maledetta.
Ai miei occhi l’unico riscatto è quello dell’essere carina, che mi condanna allo sfruttamento sessuale, o dell’esser più intelligente e colta, che mi rende antipatica e talvolta più stupida e ignorante poiché, presumendomi così, non ho capito ciò che avrei dovuto capire. Quando mi sento carina e intelligente, mi sento più carina e più intelligente, e divento un treno di massima sicurezza: ho la sensazione di essere la più carina e la più intelligente, denigro gli altri e mi sento ‘buona’. E, nel mentre, non capisco che succede, chi sono e che mi vivo.

Respiro a fatica.
La stanza trabocca di assenza,
mentre si fanno sempre più nitidi
i contorni al neon
delle cose.
Luce fredda e la coperta
sulle spalle.

Solo stamattina camminavo nel sole
e sembrava
poter essere possibile.
Poi la notte:
è solo un riflesso,
un sogno,
la stanchezza.

Pareti
bianche come pupille
che girano
o incontri attesi e mancati.
Sempre tutto possibile.

Oggi non riesco a far nulla se non fissare la pioggia che scende incessante, come le lacrime dentro, le mie lacrime che non escono mai. Lacrime asciutte, come la mia umanità seccata. Sembro una pietra, tutto il grande agitarmi di dentro si risolve in un’incapacità di sentire altro che me stessa, di sentire le cose vere e le persone, l’immobilità che mi costringe immobile da qualche parte col cervello inceppato e lo sguardo fisso su qualcosa. Così me ne scappo dal lavoro, dai posti frequentati per rinchiudermi a casa, sola e senza sentire nessuno.

Non va, io non vado nelle relazioni con gli altri, quando mi piacciono. Piaccio, ma vado cambiata, sempre potenziale grezzo. Comunque inizio a non sentirmi più bene, a innervosirmi di me stessa, a non essere soddisfatta dei comportamenti miei e degli altri, e sento che mi devo defilare.

Controlla la voce.
Abbassa la voce dentro.
Senti l’ansia che sale, non salire insieme all’ansia, ma scendi, rallenta.
Gira dall’altra parte, c’è un secondo in cui è possibile, devo imparare almeno il tempo
di questa secondo.
Prima che, prima di, prima ...

Ho ripreso le redini, mi sono imposta una calma. Sto lavorando. Fare silenzio dentro di me, impedire l'accavallarsi dei pensieri, iniziare dalla voce, dal tono e dalla scansione: parlare piano, pensare piano, fare piano. Non aver paura: non sta succedendo niente. La mia incoscienza altro non è che l'altra faccia di ciò che mi domina: la paura. Sì, devo essere tremendamente paurosa.

Lo so
e saperlo a volte non basta
sento una tristezza dentro
una sconfitta
non so rispetto a cosa né perché
so che tremo dalla paura
tremo
trema la voce
trema la mia vita
tremo tutta quanta
mi sto controllando abbastanza e si vivono momenti allegri
ma io ho profondamente paura.
non ho voglia di niente, ho solo paura di precipitare e vorrei precipitare gli eventi prima che precipitino me.
non mi fido
degli altri e di me
delle cose
ho paura
vorrei esser calmata e consolata
cullata e accarezzata
24 su 24
nient’altro

La pace, il mio urlo di dentro che tace. Dimenticare,tornare al reale, per potersi salvare, per potersi scappare. Scappare è salvarsi.
Un giorno riesco a far finta di nulla, a simulare normalità e serenità, un altro no, e ripiombo nella mia darkness stupida.
Disconnessa dalla realtà: non sento e non vedo nulla di ciò che accade, la paranoia è al mio timone e solo negli attimi in cui questa si riposa o scema, riesco a toccare la superficie delle cose e delle persone, altrimenti l’altalena del mio star male, unito al voler morire, segue un suo ritmo impazzito su cui nulla e nessuno può.
Corro nella mia tana, la musica della mia tristezza, il mio silenzio, e qualcosa che somiglia alla quiete. Ma com’è diversa dalla quiete in riva al mare.
Una quiete di ferro questa, pesantissima e scoppiata. Nemmeno una quiete di morte, assoluta e irrimediabile. La quiete del caos, il chiasso assordante che confina col silenzio, il dolore acuto che sembra non-sentire, paralisi, anestesia.
Sola, accompagnata dall’irreversibile perversione d’esser come sei, d’essere incapace di esser-altra e migliore, di lasciarti modificare, di una durezza e una rigidità estrema.
Non saper esser sana. Non sapermi nutrire, nel corpo , nella mente, nei desideri, nella fantasia. Io so solo mangiar male, e tutti i giorni, incapace d’interruzione nel disastro, so solo pensar cose brutte, riempirmi di paure e presentimenti, di immagini mostruose e dolori lancinanti. E chiaramente cercare l’isolamento, il mondo del non visibile, la non-esposizione, la fuga.

Alla fin dei conti l’Altro mi atterrisce. Incapace di allontanarmi, distruggo le buone intenzioni del prossimo finché questo non si allontana e io possa così affermare che avevo ragione, che era meglio non starci dall’inizio. Evitare, nella vita si dovrebbe sempre evitare tutto. Andare avanti con gli amici, quelli non sono terreno minato ... Perché degli amici non ho paura, degli uomini sì? Vorrei essere semplice semplice, come sono quando sto sicura e rilassata, ma non ci riesco più…. Mi trasformo da meccanismo complesso in elementare, ma sono destrutturata al mio interno. Lo so che nemmeno esisto. Sono una finzione , un’immagine proiettata su una parete ed evanescente. Non so a cosa aggrapparmi, appendermi, quale tram, quale direzione, dove e come. Vorrei solo dormire dormire dormire. Quando dormo non sbaglio, non tremo, non temo. Il sonno è l’unico abbraccio serio, vero. La mia protezione è il sonno. La cifra dell’incredibile.


Sulla rubrica Squarci
Se la scrittura si serve di aghi e coltelli, se punge e lacera, se ogni pagina apre un varco in mezzo all'ovvio e al non detto, se la ragione ha bisogno di attimi di illucidità, se ogni testo si apre su un paesaggio interiore, se è un buco della serratura da cui spiare il mondo, se duole, se è una lama nella carne, se è una trama interrotta in un punto a caso, se la narrazione si spezza come un canto, se è una dissonanza, se semplicemente siete curiosi di sapere chi siamo. Estratti, ferite, fenditure di scrittura, un modo per sentire i nostri silenzi e leggere tra le righe di ciò che abbiamo in cantiere.