Squarci | sabato 29 aprile 2006

Maria Teresa Cialoni

La casa

Appena superato il vecchio cancello, s’incamminò per il breve viale che porta alla casa. Due piani di pietra, grande, senza fregi né pretese d’eleganza, ma che comunicava un senso di protezione e solidità.
Percorrendolo lentamente, dovette imporre a se stessa di camminare normalmente, vincendo l’impulso di farlo come allora, poggiando il piede al centro delle pietre di cui era lastricato per evitare accuratamente di calpestarne le connessure, cosa che avrebbe comportato immaginarie angosciose conseguenze. Era questo, infatti, l’unico gioco consentitole, perché silenzioso, quando, ogni giovedì, andava alla casa da bambina e sua madre, persona non gradita, che l’accompagnava, si fermava al cancello a guardarla salire.

Andava a trovare quel vecchio verso il quale non sentiva affetto ma che le suscitava curiosità e un po’ di paura, perché la malattia aveva immobilizzato gran parte del suo corpo e deformato il suo volto cancellandovi ogni espressione e imprimendovi un ghigno, come un sorriso fatto con l’angolo della bocca, ma un sorriso sgradevole, che lasciava intravedere i piccoli denti radi e aguzzi come quelli di un bambino; e neanche nello sguardo che le rivolgeva, lei scorgeva ombra di tenerezza.
Ciononostante egli aveva fortemente voluto che entrasse a far parte di quella strana famiglia nella quale ben tre dei quattro figli, in modi e per strade diverse, avevano scelto la solitudine. Solo uno, il quarto, si era ritrovato tardivamente e malvolentieri padre, una paternità vissuta con pochi obblighi e ancor meno calore.
I suoi genitori non l’avevano voluta né desiderata, neanche sua madre, che pur si occupava scrupolosamente di lei.
Ma lei era lì, una di loro, l’ultima. E, per il vecchio, unica occasione di immortalità.
Così, il giovedì andava a pranzare con il nonno e con la zia, attempata, sola, arida, che di lui si occupava e da lui, in ogni senso, dipendeva. Rispettava i suoi ordini e preveniva i suoi bisogni; mai il pensiero di disobbedire aveva sfiorato la sua mente, anche se egli aveva sempre deciso della sua vita. Aveva obbedito, pur considerandolo un egoista, quando aveva rifiutato il suo consenso a un rozzo matrimonio che non riteneva all’altezza di una signorina di buona famiglia, costringendola, così, alla solitudine. Bella non era, non lo era mai stata, forse graziosa subito dopo l’adolescenza, ma ormai tutto era passato; ora era una matura signorina che aveva superato il tempo delle possibilità, e il suo unico compito era rendere meno faticosa la vita ad un vecchio dispotico che lei, pur amandolo, ormai mal sopportava. Non aveva, però, rinunciato all’illusione: una volta rimasta sola… chissà!
Infatti, ogni anno apriva le due casse di quercia che contenevano il suo corredo e scrupolosamente lavava, stirava, inamidava tutto, per bene, come le era stato insegnato, per impedire che la pregiata biancheria ingiallisse e l’approntava come se dovesse servire entro breve tempo.
Durante questo affaccendarsi, le sovveniva un chiaro ricordo di quegli anni in cui, concluso il suo breve ciclo scolastico, - dopo la quinta elementare, infatti, una fanciulla era considerata sufficientemente istruita -, aveva cominciato ad andare, quasi ogni giorno, al convento delle suore benedettine: lì, su un lungo, massiccio, tavolo, stavano distese vecchie coperte, per rendere l’appoggio più morbido, e una lunga tela bianca, immacolata, per far sì che la biancheria poggiata su di esse non si ombrasse, e lei, insieme a due suore a capo chino e rispondendo alle poste del rosario, aveva ricamato lenzuola, tovaglie, asciugamani, nella quantità e qualità imposta dalle usanze.
Ora quei lini, quelle tele erano lo specchio della sua vita: sempre rinchiuse e nessuno che avesse avuto la possibilità di goderne e apprezzarle.
La zia non era cattiva, aveva anzi degli slanci d’affetto, seppur contenuti, nei suoi confronti, ma su di lei talvolta riversava il livore che aveva nei confronti di quella, come soleva chiamare sua madre che, - ne era convinta -, aveva approfittato di suo fratello rendendolo padre suo malgrado. Gelosa di questo fratello, anch’egli rimasto senza una famiglia propria fino alla maturità, forse contava su di lui col desiderio di occuparsene, quando il padre l’avesse lasciata, quasi a sostituire un ormai improbabile compagno.

Assorta nei ricordi era arrivata in prossimità della casa, e si era soffermata sulla cisterna scavata nella roccia, che un tempo, raccogliendo l’acqua piovana, consentiva la sopravvivenza a un orto e a un giardino ormai inesistenti da quando il vecchio non aveva più la forza, la voglia, né l’autorità per seguire quanti avrebbero dovuto lavorarvi. Tutto era stato abbandonato e perfino le piante da frutto andavano inaridendo.

Sopra la cisterna, una vecchia vite dai rami contorti si arrampicava faticosamente all’impalcatura di legno e, in piena estate, diventava rifugio e sollievo dalla calura per chi aveva costruito tutto questo nella speranza che i figli prolungassero la sua esistenza e il suo lavoro e che, invece, troppo tardi, si era convinto dell’inutilità dei suoi affanni.
Guardando quella cisterna, rivide con gli occhi della mente la figura del vecchio che lei non era mai riuscita a chiamare nonno - la soggezione la paralizzava -: lo ricordava seduto su una poltrona di vimini dall’alto schienale, con indosso una maglia di lana di pecora accuratamente fatta a mano, linda, seppure un po’ consunta, dalle maniche lunghe, leggermente arrotolate, che lasciavano intravedere i polsi ossuti con le vene gonfie e bluastre che serpeggiavano fin sulle mani dalle nocche ingrossate ma lunghe e affusolate, mani da signore, e un vecchio paio di pantaloni di velluto grigio con larghe bretelle, un po’ lente sulle spalle, attaccate ai pantaloni con grossi bottoni di madreperla. Sulla testa, un cappello quasi bianco, di leggerissimo Panama con un’alta fascia nera, un copricapo che in tempi lontani era stato elegante e raffinato, e, sotto la larga falda, gli occhi, intensi, senza sorriso, di un azzurro chiarissimo, che si scorgevano sorprendendo al di sotto delle folte sopracciglia perennemente aggrottate, quasi a nascondere l’ultimo residuo inalterato di un’antica prestanza.

Non ricordava, lei, quando il vecchio se n’era andato. Ricordava soltanto la sua assenza; non lo rimpiangeva, comunque, dal momento che non aveva avuto modo di amarlo, ma sentiva come un vuoto e capiva di non essere più importante come prima per la zia che era rimasta sola custode e garante, anche se malvolentieri, degli ordini e dei desideri di colui al quale continuava a obbedire anche dopo morto.
E tutto era andato come lui aveva deciso: alla morte della zia la roba, che aveva per molti versi condizionato la vita e gli affetti familiari, era, in parte, diventata sua. Sue le casse di quercia, sua la casa, un simbolo di continuità, poiché lei era l’ultimo, casuale, componente di quella solitaria famiglia.

Ora che era tutto finito, concluso, attendeva l’incaricato dell’agenzia immobiliare che si sarebbe occupato della vendita, lo attendeva impaziente, in piedi, guardando ora il viale, ora la casa, sulla quale si notavano evidenti segni di decadimento.
E avvertiva una sgradevole sensazione di malessere, come di colpa, pur sapendo di non averne: la manutenzione troppo onerosa non era nelle sue possibilità e, poi, lei non abitava là, non vi aveva mai abitato, non amava quella casa, non l’aveva mai sentita sua… dialogando tra se e se, tentava di giustificare la sua decisione, eppure, sentiva che forse avrebbe potuto cercare soluzioni diverse, e temeva che col tempo si sarebbe pentita, che avrebbe provato nostalgia e rimpianto, anche di chi vi aveva infelicemente vissuto.

Scuotendo la testa in segno di diniego impose a se stessa di ignorare i nuovi inaspettati sentimenti, che tutto era ormai definitivamente stabilito… e senza più voltarsi indietro, si avviò lentamente a incontrare l’uomo vestito di grigio che, risalendo il viale, le faceva cenno, da lontano.


Sulla rubrica Squarci
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