Squarci | venerdì 25 dicembre 2020

Arianna Panza

Il vecchio professore

“Mmmmm….. guarda là! No, non è lui. Ma dove sarà finito?” Trachetetrachetetrachetetrac. “Spero non sia morto. Sarà andato in vacanza. In pensione. Oh, eccolo. È vivo!”

Secondo giorno di pensione per il vecchio prof. Dopo quarant'anni in quel liceo, era finalmente andato in pensione; quarant'anni durante i quali aveva fatto sempre la stessa strada per arrivare a scuola...casa sua, Piazza Magenta, liceo. La Piazza era sempre stata per lui un passaggio; un passaggio che lo trasformava, la mattina come il pomeriggio, che gli faceva vivere cinque minuti di magia. E quindi quel giorno, il secondo giorno di pensione, non aveva resistito a passare comunque di là, non poteva evitare di farlo, troppo forte era il legame con quel percorso. Perciò si alzò alle sei in punto, come quando era ancora un giovane prof. (ma anche come quando era diventato "il Vecchio Prof.)" e cominciò a prepararsi. La sua routine mattutina era lunghissima. Dopo mezz’ora nel bagno si guardò allo specchio toccandosi i pelucchi rimasti dalla barba. Il suo riflesso sbilenco lo guardava male, quasi come se non fosse lui a controllarlo. C’era qualcosa di diverso che non tornava in quell’immagine. Non sopportava le sue spalle incassate nella schiena, il collo un po' storto, quella faccia seria che aveva davanti allo specchio. Chissà quante volte lo avevano definito storto, sbilenco... era così: alto, magro, con la faccia che spesso sembrava un po' rettangolare e le spalle, la schiena... sbilenche, appunto. Lui non sapeva neanche quando fosse diventato così, da quel che ricordava lo era sempre stato. Comunque non aveva tempo per pensarci, e quindi...si arrendeva a quella strana caratteristica. Il professore, caduto in un turbine di pensieri, si diede uno schiaffetto sulla guancia, sbuffò e uscì di casa. Subito, immergendosi nell’aria pungente del mattino, il malumore che si era annidato in lui scomparve.

“Ma non sappiamo come si chiama questo professore?” “Non è importante. Lo chiameremo semplicemente ‘Il Vecchio Prof."

Il Vecchio Prof. aveva una faccia diversa, gli mancavano parecchie cose, e inoltre non riusciva a respirare con quella mascherina sul naso. Quello che gli mancava di più era la sua borsa di pelle, rigida, non troppo grande, che aveva sempre portato con sé, caratterizzandolo: fin dal suo primo giorno in quel liceo. Per lui era come la borsa di Mary Poppins; ci metteva dentro di tutto, e i ragazzi sapevano bene che lì dentro il Prof. non teneva solo le loro carte, ma anche molte altre cose, ben più importanti e segrete. La borsa di pelle era un simbolo per tutta la scuola, una cosa che inquietava e al tempo stesso rassicurava tutti. Il professore la portava dappertutto, come se con il suo aiuto potesse registrare quello che gli accadeva. Ecco, quel giorno, il secondo giorno di pensione, la borsa era rimasta a casa. Al suo posto, il Prof. teneva in mano una borsa di pezza comprata in un supermercato; era vuota, completamente vuota, come lui.

Una borsa vuota che aspettava di essere riempita. Ma il professore non sapeva ancora di cosa. Stava camminando nel vialetto di ghiaia accanto alla Chiesa. Osservava i ragazzi e tutte le persone che andavano e venivano, tutti con una direzione precisa, lo sguardo rivolto in avanti, e pensava che non voleva essere in pensione. Perché, poi? Mentre pensava a tutte queste cose sentì un fremito provenire dal terreno. Andò nel panico. Pensò che fosse un terremoto, si pentì di non avere la borsa di pelle con sé, pensò alle prove antisismiche del liceo, sentì la borsa appesantirsi, si calmò. Sentì un’altra scossa. E di nuovo, la scossa scatenò la stessa serie di azioni e pensieri. Il Vecchio Prof. andò avanti. “Vecchio rimbambito che sono! Adesso ho anche le allucinazioni!” Stava per lasciare la Piazza per imboccare Corso Amedeo quando un’ultima scossa, più forte delle altre, lo costrinse a fermarsi. “Adesso basta. Giù.” Si sedette su una panchina e chiuse gli occhi. Non appena si calmò, accadde qualcosa di incredibile. Si sentì improvvisamente leggero, come se volasse, come se avesse bevuto litri e litri di Spritz (proprio lui, che mai aveva assaggiato un Campari!), come se fosse stavo svuotato da tutti i pensieri che aveva in testa. Allora capì che erano davvero tanti. E anche molto pesanti. Poi cominciò a galleggiare nel tempo, così, svuotato da tutto, tranne che dal suo corpo. Galleggiò nel tempo e arrivò alla prima volta che aveva attraversato quella Piazza. Almeno quarant’anni prima. La Piazza era giovane, come lui: anche un distratto si sarebbe accorto che era viva. Stessa cosa per sé stesso: si rivide allegro, non ancora sbilenco (ah, allora lo era diventato!), rivide la sua borsa; sembrava leggerissima, quasi vuota. Vedeva questo giovane prof avviarsi al suo primo giorno di lavoro, e guardandosi, guardando la borsa, sentiva una fitta fortissima. Poi tutto divenne sfocato, il galleggiamento nel tempo stava finendo; vide sé stesso chinarsi sul prato, esitare un momento, e poi tornare su con una margherita, la più bella di tutte. Bianca, perfetta. La mise nella borsa. E il ricordo finì.

Buio. Catapultato nel buio. Uno, due, tre secondi. Poi si riprese, ma aveva un fortissimo mal di testa. Si rialzò lentamente e riprese a camminare. Si sentiva meglio, ma aveva anche una terribile voglia di parlare. Allora cominciò a giocare con i pensieri più leggeri di sempre: osservò una farfalla, calciò un legnetto caduto in terra, sorrise. Poi fece una cosa che da tre anni rimandava: sorrise convinto, facendole capire che era rivolto a lei, a una ragazzina con un trolley blu. E raccolse una margherita.

Cominciò a correre, fortissimo, velocissimo, sempre di più, di più, di più... e cominciò a riempire la sua nuova borsa di pezza. Ringraziò la Piazza, che gli aveva restituito i suoi ricordi nascosti. Adesso non si sarebbe fermato più.


Su Arianna Panza
La più giovane scrittrice di Orientexpress. Tredici anni al suo debutto con idee e sensazioni già molto chiare sui libri e la loro... amicizia.

Sulla rubrica Squarci
Se la scrittura si serve di aghi e coltelli, se punge e lacera, se ogni pagina apre un varco in mezzo all'ovvio e al non detto, se la ragione ha bisogno di attimi di illucidità, se ogni testo si apre su un paesaggio interiore, se è un buco della serratura da cui spiare il mondo, se duole, se è una lama nella carne, se è una trama interrotta in un punto a caso, se la narrazione si spezza come un canto, se è una dissonanza, se semplicemente siete curiosi di sapere chi siamo. Estratti, ferite, fenditure di scrittura, un modo per sentire i nostri silenzi e leggere tra le righe di ciò che abbiamo in cantiere.