Squarci | domenica 29 novembre 2020

Arianna Panza

Piazza Magenta

La mattina per andare a scuola esco di casa sempre alla stessa ora.

Conto i rintocchi delle campane della Chiesa, imponente in mezzo a Piazza Magenta: uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto. Alle otto la Piazza è sempre così silenziosa e apparentemente dormiente, ma non è così, ci vuole poco per sentire su di sé tutte le piccole storie che la attraversano. A quest’ora del giorno si lascia condizionare molto da chi la attraversa, si lascia vivere, ecco. Una piazza enorme, dominata da una Chiesa che mi sembra eternamente chiusa, ma che in realtà non lo è affatto. Ai lati della chiesa vialetti, prati e alberi. Lampioni, e qualche panchina sparsa qua e là. Attraverso questa Piazza, e ogni volta che lo faccio, in tutte le stagioni, entro in uno stato di calma e riflessione che nessun altro posto riesce a darmi. Vado a scuola da sola; sento solo il rumore leggero e monotono del mio trolley che avanza, e i miei pensieri che fanno un sacco di rumore per prendere posto nella mia testa. Il mio occhio si fa improvvisamente più attento, osserva tutto e tutti, trasmette immagini che immediatamente si trasformano in pensieri. Io sto zitta, ma non sento il bisogno di parlare: mi basta il dialogo confuso nella mia testa.

Incontro sempre le stesse persone: io le conosco, e ogni volta mi chiedo e spero che anche loro conoscano me. O sono forse l’unica che osserva i movimenti di questo posto? Cerco di pensare che non è così. Davanti alla Piazza, accanto al prato con l’erba alta (che è così alta che secondo me è abitata da serpenti), c’è sempre una ragazza con uno zaino eastpack rosso, rosso fuoco, e una crocchietta simpatica sulla testa. Aspetta le sue amiche e, mentre aspetta, si immerge nella musica che esce dalle sue cuffie. Penso che magari l’anno prossimo non le incontrerà più lì, le sue amiche, perché il liceo sarà finito. Continuo a camminare e mentre cammino vedo tutte le altre persone con cui condivido ogni mattina la piazza. C’è una signora (inglese, forse?) vestita tutta di jeans, con delle cuffie enormi in testa, che saluta qui ogni mattina la sua amica con un bambino piccolissimo. Arrivano da via Demi, magari abitano insieme: poi qui si salutano e la signora con le cuffie corre via. Tratartaratratratratratrata. A volte mi chiedo se il rumore del mio trolley disturbi la quiete indaffarata degli abitanti della Piazza, ma poi mi dico che no, non è possibile: ormai fa parte della normalità, come gli uccellini che cinguettano o i cani che abbaiano. Tutto è così immobile e perfetto.

L’incanto purtroppo svanisce presto, ed entro in un’altra realtà: quella della via più silenziosa che io conosca, via Demi. Qui non passa mai davvero nessuno, a parte una coppia di signori. Lei è altissima, i capelli biondi e ricci e una faccia austera, lui sembra il suo assistente, anche se probabilmente è suo marito. È basso, pelato, cammina ondeggiando e non parla mai. Ma nemmeno lei parla, evidentemente anche le loro menti esplodono come la mia e si dimenticano l’uno dell’altro. Quando piove, lei sta sotto un grande ombrello a scacchi, e lui la segue ondeggiante, sottomesso. Ci sono poi le persone che non vedo più, e di cui immagino le storie: c’era un vecchio professore del Niccolini, tutto storto e gobbo, che passava per Piazza Magenta con la sua borsa in pelle da vecchio prof.: spero che non sia morto, che sia andato solo in pensione. Poi c’erano i ragazzi del liceo che ripetevano con i libri in mano, adesso non ci sono più. Sono all’università? E per ultime, due bambine con la madre di cui tutte le mattine ascoltavo di soppiatto i discorsi: ora gli orari scaglionati dell’entrata a scuola non lo permettono. Erano le uniche ad andare nella mia direzione. Tutti gli altri mi vengono incontro, vado controcorrente.

Sono le otto e dieci, comincio ad avvertire con tristezza che la magia sta per svanire: devo prepararmi a entrare in un’atmosfera completamente diversa. Sento dentro di me che la bolla sta per scoppiare, che potrò entrarci di nuovo solo quando ripasserò di qui, di ritorno da scuola; e comunque non sarà uguale. L’anno prossimo mi mancherà non incontrare queste persone e non provare questa sensazione sviluppata nei tre anni delle medie. Già ora, a pensarci, divento un po’ triste. L’unica cosa che spero è che magari qualcuna delle persone che sono diventate mie amiche “di piazza” mi abbiano notata e si ricordino di me. Solo questo renderebbe tutto diverso. C’è un’ultima cosa che il mio occhio vede prima di finire nel caos... una coppia inseparabile, affacciata all’unica finestra aperta di via San Gaetano: una vecchia signora con il suo vecchio cane. Osservano i bambini che urlano e che passano tutti i giorni sotto casa loro. Hanno lo stesso sguardo placido. Non hanno bisogno di parlare. Chissà cosa pensano. Chissà.


Su Arianna Panza
La più giovane scrittrice di Orientexpress. Tredici anni al suo debutto con idee e sensazioni già molto chiare sui libri e la loro... amicizia.

Sulla rubrica Squarci
Se la scrittura si serve di aghi e coltelli, se punge e lacera, se ogni pagina apre un varco in mezzo all'ovvio e al non detto, se la ragione ha bisogno di attimi di illucidità, se ogni testo si apre su un paesaggio interiore, se è un buco della serratura da cui spiare il mondo, se duole, se è una lama nella carne, se è una trama interrotta in un punto a caso, se la narrazione si spezza come un canto, se è una dissonanza, se semplicemente siete curiosi di sapere chi siamo. Estratti, ferite, fenditure di scrittura, un modo per sentire i nostri silenzi e leggere tra le righe di ciò che abbiamo in cantiere.