News | sabato 29 aprile 2017

Chiara Tortorelli

Arte ed emozione

Confido un mio sentire, l’ispirazione a mio avviso è un po’ come la Grazia cristiana.

Oggi chi scrive, chi recita, chi dipinge, chi si dedica in qualche modo all’arte tende ad appropriarsi o a considerare suo un dono che l’universo fa alla vita, all’umanità in generale e di cui l’artista non sa.

Ho sempre visto nell’uomo che si dedica all’arte o che vede fiorire un talento, niente più che un canale: la sua, se vogliamo chiamarla in qualche modo, grandezza, sta nel mantenersi “vuoto” e permettere al divino di compiersi e fiorire “attraverso” di lui
.
Ecco, forse, perché in virtù di questo sentire, quel “fare e disfare” diventa modo di vivere.

L’atto creativo è un fare e disfare continuo, distruggere e ricostruire, e poi di nuovo veder rinascere, non c’è attaccamento, né aspettativa ma solo apertura smisurata di ciò che Gurdjeff definiva “centro emozionale superiore”, che si attiva a mio avviso in presenza dell’ispirazione e che nasce da un sentire che trascende l’individuale e si apre al collettivo, al transpersonale.

Struggersi non è un male: uno dei mali dei nostri tempi è aver messo da parte il canale emozionale.


Riflettevo, giorni fa, su come oggi sia un diktat essere pronti e rapidi nella risposta quasi a riflettere il mondo veloce e caotico in cui viviamo, ma questa risposta rapida deve essere sempre uno scioglilingua della mente, deve tendere a dimostrare la sagacia, e insieme il disimpegno e l’ironia cinica di chi la dice. Ecco disimpegno e cinismo sono le chiavi della nostra epoca.

Il cinismo conferma l’intelligenza, e il disimpegno sottolinea il non coinvolgimento del cuore.

Se non sono coinvolto, non mi tocchi, sono quindi potente e invulnerabile.


È la costruzione dell’eroe moderno che in assenza di etica e morale ha sostituito il kálos e agatós con accumulo, serialità e immagine.

Costruire e mantenere un’immagine rende cinici perché sconnessi dalla parte ombra, da ciò che immagine non è.


L’emozione è vulnerabilità, è svelare che puoi toccarmi, e dal tuo tocco posso rimanere sconvolto, è conferma dell’antieroicità, ma anche epifania dell’uguaglianza. Nel reame del cuore non esiste gerarchia o supremazia. C’è solo la meraviglia di un cuore vulnerabile, l’umanità svelata.


E qui mi sembra naturale parlare di Chögyal Namkhai Norbu (che significagioiello del cielo).
Ho conosciuto Rinpoche nel lontano 2003, in Toscana durante uno dei suoi ritiri a Merigar, vicino Arcidosso.

Ciò che mi ha colpito è stata la sua grandissima semplicità. Le cose essenziali, quando le incontri, hanno un profumo particolare che sfronda la vita dell’inutile e ti riconduce al centro.

Il centro di sé e delle cose è una matrice elementare ma è nel “riconoscimento” che accade l'epifania di senso.

È come guardarsi in uno specchio. Prima sei distratto da centomila cose, corri, vivi a metà, non comprendi se non a tratti, parzialmente e attraversando mille anfratti, poi d’un tratto incontri “lo specchio”. Immediato, nitido e nudo, ha la valenza di uno choc, è come uno schioccare di dita. E d’un tratto ti liberi delle parole, dei significati mentali, dei dogmi, delle costruzioni, degli intellettualismi, delle filosofie. È un’altra strada: ci sei, sei presente, connesso e vivo, e in questo riconoscimento vacilli di riconoscenza e commozione perché senti un amore smisurato che è insieme per lo specchio che ti riflette, per te, per la vita e per il mondo, in un solo attimo indissolubilmente connessi.

L’arte scaturisce da questo, dalla connessionee insieme dal vuoto, è un paradigma di fiducia, di resa e di presenza.

L’arte non è nell’opera ma nel gesto, è il gesto “pulito”, scevro da ambizioni e ricerca del risultato, eppure pervaso di passione a fare arte, la perfezione intrinseca dell’atto, perfetto in sé, che non si compiace ma si arrende al senso proprio dell’essere, alla meraviglia del divenire.

Quest’atto che incarna la vita, che nasce dal vuoto e torna al vuoto ha una sua straordinaria bellezza, e non ha alcuna importanza se il risultato è una frittata o la cupola Sistina. L’arte sta nell’atto ma si riflette nell’opera.

È un atto umile: ci si fa piccoli per accogliere il Grande, si mette da parte la ragione per accogliere il mistero, si entra nell’utero del mondo in punta di piedi, perché in ogni autentico gesto creativo c’è l’apertura incommensurabile della “Madre”. Ogni madre conosce cosa vuol dire mettere al mondo un figlio, gesto d’amore che, privato della retorica, resta intriso di umiltà. Ci si mette da parte, il corpo fa spazio all’altro da sé, all’incommensurabile senza misura, senza voler comprendere.


Si nasce perché qualcun altro ci fa spazio, è lo spazio la matrice dell’amore.