Squarci | martedì 14 marzo 2017

Alessandro W. Mavilio

Dal nulla, Napoli.

Chiariamoci: è notte.

Apro gli occhi disturbato dal vento insistente e umido e da un rumore fastidiosissimo. Apro gli occhi, ma per un po’ non mi è dato di capire. Il mio è un risveglio inatteso. Mi trovo molto in alto da qualche parte, è chiaro, certamente in pericoloso bilico, e il corpo è contratto istintivamente forse per salvarsi e salvarmi. Ho la netta sensazione di aver scisso intellettualmente anima e corpo. I due non stanno agendo insieme come fanno sempre: l’uno è paralizzato e l’altra… pure, nella speranza che il corpo non ceda.

Ho gli occhi spalancati da un pezzo ormai ma - come se fossi un bambino in fasce - la visione effettiva arriverà con molto ritardo. Da qualche minuto dal risveglio ho percepito il fastidio di un vento caldo e umido, e questo ululato continuo.

Finalmente riesco a mettere a fuoco. Ho le dita avvinghiate alle sbarre sottili di un balcone. Queste sbarre sono dei normali tondini da costruzione, di quelli che normalmente stanno nelle colonne di cemento armato, freddi e zigrinati al tatto. Devo trovarmi su un balcone concepito molto tempo fa e senza troppa attenzione alla bellezza.

Aurora. Riconosco il cielo e il porto di Napoli. Il golfo è impegnato da navi e traghetti in movimento. Ci sono navi tanto grosse che se lo volessero potrebbero chiedere al Vesuvio di fasi da parte. Eppure queste navi si muovono con agilità e maestria e soprattutto in silenzio. L’ululato che continuo a sentire non viene dalle navi. Guardo il cielo con una linea di alba e riconosco il settore di cielo di Capodichino. Sì, ci sono aerei in circolo e in attesa di atterrare, anche loro… diligentemente. Come per magia, con gli occhi al cielo posso ascoltare le comunicazioni in inglese della banda aerea.

Torno a guardare giù è mi sembra di capire che l’ululato fastidioso provenga dall’angolo di un palazzo giù in piazza. Noto quanto quell'angolo sia esposto, urbanisticamente sfacciato, un vero e proprio fastidio per gli occhi e le traiettorie. Sento in un attimo la storia di quel lotto: non vi era una strada al lato della quale fu costruito il palazzo bensì fu costruito un palazzo nel nulla e la strada vi si adattò dopo. È da quell'angolo del palazzo che proviene l’ululato.

Dai ricordi di giovinezza viene fuori il nome di un amico, Giorgio, dal quale devo aver imparato il termine ‘ufera. Bufala o bufera? Adesso i due termini sono coincidenti, per un napoletano di città entrambi sono termini di un discorso mai reale, mai sperimentabile. Questo rumore che ascolto può essere infatti un lungo muggito così come il fischio del vento insistente. Eppure…

Sono giù in istrada e tocco con mano lo spigolo di quel palazzo rumoroso. Attorno a me c’è devastazione – c’è stata una guerra in mia assenza – penso. Sbircio nel palazzo, malridotto a ben vedere, e dentro vi è attiva una stireria industriale, che devo per forza definire di regime. Centinaia di donne stirano divise misteriose. C’è il tipico odore di vapore e chimica. Alcune donne escono e in fila indiana, calpestando un sentiero devastato di via Marina, si dirigono da qualche parte. Il mare nero è alla loro destra. Anche loro fanno tutto con rassegnata diligenza. Le seguo per un pezzo ma è chiaro che le poverine dovranno andare molto lontano. Portando le loro ceste di panni.

M’incammino anche io invertendo direzione e puntando con decisione verso Santa Lucia. In questa Napoli per me assurda decido di andare alla mia vecchia scuola. Lì ci sarà qualcuno che si ricorderà di me e che mi spiegherà cosa è successo negli anni. Senz'altro ci sarà qualcuno e cammino a passo veloce pensando solo “senz'altro, senz'altro, senz'altro”. Attraverso i vicoli più misteriosi di Napoli, del Pallonetto, i vicoli più remoti e rimossi, quelli che io frequentavo da studente e che – oggi ci potrei giurare – nessun napoletano per bene ha visto e vissuto come ho fatto io, con i miei compagni d’arte, nella protagonista spensieratezza del nostro tempo giovane.

Cammino e cammino per vico Solitaria, in questo vicolo in leggera pendenza, deserto, dove comincia a piovere improvvisamente il sole della mattina. Non c’è nessuno ma sento voci, sento gli odori della vita: urina, colazioni, detersivo, muffa… Mi fermo, chiudo gli occhi, e sento il rumore di un tappeto sbattuto e, ancora, il canto delle lavandaie del Vomero, intonato da una casalinga, tanto seria – apro gli occhi – da essere in camice azzurro.

Fermo e solo, vengo sopraffatto dal pensiero che è domenica di un’epoca sconosciuta.


Su Alessandro W. Mavilio
Orientalista, scrittore, cineasta. Laureato in Lingua e Letteratura giapponese presso l’Università “L’Orientale” di Napoli, Alessandro Mavilio ha insegnato per più di un decennio all’Università Industriale di Kyoto. Nell’àmbito del progetto “Taoist Movies” è autore anche di numerosi cortometraggi sperimentali girati in Giappone.

Sulla rubrica Squarci
Se la scrittura si serve di aghi e coltelli, se punge e lacera, se ogni pagina apre un varco in mezzo all'ovvio e al non detto, se la ragione ha bisogno di attimi di illucidità, se ogni testo si apre su un paesaggio interiore, se è un buco della serratura da cui spiare il mondo, se duole, se è una lama nella carne, se è una trama interrotta in un punto a caso, se la narrazione si spezza come un canto, se è una dissonanza, se semplicemente siete curiosi di sapere chi siamo. Estratti, ferite, fenditure di scrittura, un modo per sentire i nostri silenzi e leggere tra le righe di ciò che abbiamo in cantiere.

Il Recinto. Sguardi e riflessioni sul Giappone, di Alessandro W. Mavilio (Gli Ibischi, 2015)