Squarci | giovedì 26 febbraio 2015

Laura Canciani

Assenza come dissolvenza

Si ravvivano le emozioni, sollecitate da qualche evento. Certo il mio rapporto con l’assenza rimane ambivalente.
Desiderata, forse per ricontattare un antico dolore, ma al contempo aborrita dalle mie strategie comportamentali. L’essere presente alle persone a cui voglio bene è una necessità quasi naturale. Distanza e assenza, vicinanza e presenza convivono nella mia vita in un’ altalenante e tormentata opposizione. Temo l’assenza come dissolvenza di presenze affettive, soffro per la distanza in cui svaporano il contatto e l’intimità.
Negli anni queste dimensioni si sono normalizzate, radicate nel quotidiano. Si è creata una strana familiarità che le rende comunque accettabili. La mia ricerca del silenzio dà visibilità a una condizione di vuoto che mi appartiene dall’infanzia. Ma il silenzio è anche il luogo amico in cui si annullano le distanze e si addensano in me significative presenze, che posso contattare almeno spiritualmente o mentalmente.
Il silenzio è uno spazio inviolato, che si dilata ed accoglie, si richiude e allontana, nel soffio del respiro, seguendo un ritmo scandito dalle mie frequenze e dalle mie pause. Qui il mondo esterno può attendere rispettosamente sulla soglia, almeno per brevi istanti, senza usurpare con la sua prepotente irruenza, senza sciogliere i nodi affettivi più volte spezzati in un lontano passato. Frammenti di confusi ricordi talvolta si frappongono, come piccole scaglie di luce che increspano la superficie del mare.
Precipito allora verso il fondo, risucchiata dalla forza vorticosa di remote emozioni. Le rivivo con gli stessi innocenti palpiti dell’infanzia, un sussulto del cuore che ritorna e stordisce, preme e inabissa là dove il tempo sembra arrestarsi per meglio fissare gli eventi riflessi nello sbiadito specchio dell’anima.
Mi rivedo bambina, a quattro anni già esperta a muovere i primi passi lungo le spinose linee della separazione e della perdita. Già in grado di misurare distanze infinite, di contare assenze prolungate, di stare nell’attesa di un possibile bramato ritorno.
A. è tornato, dopo un periodo di permanenza in Africa, dove è stato trasferito da circa un anno. Vorrebbe portare con sé la famiglia, ma reputa sia troppo rischioso sottoporla a un cambio di vita così radicale in un luogo straniero. Considera lo scoglio della lingua, le difficoltà di ambientazione, la bimba piccola ancora bisognosa di particolari cure. E poi l’ambiente di lavoro ostico, per nulla accogliente. Non potrà stare nella capitale. Lo attende la sterminata sabbia del deserto sahariano, la calura di un sole arroventato, raramente oscurato dalla protettiva ombra delle nuvole, ore di intensa attività presso i pozzi di perforazione petrolifera. Preferisce la lunga separazione, distanze più dilatate che non intacchino l’abituale ritmo e la tranquillità della sua famiglia. Pone sulla bilancia il carico dei suoi disagi, della sua solitudine.
Non conosce fino in fondo quale peso andrà a gravare sull’altro piatto, quello che lascerà con struggente nostalgia entro le mura della sua casa. Può solo immaginare le fatiche della moglie, impegnata a crescere da sola una figlia un po’ gracile. Oscuro gli rimane il mio mondo di bambina, la mia interiorità inesplorata. Di me ha percepito sicuramente i dolenti risvolti delle ripetute malattie, fonte per lui di ansia e preoccupazione. Ma non c’è stata possibilità di vivere una quotidiana familiarità.
Lui immagina forse che ad ogni rientro lo scenario possa presentarsi inalterato, preziosamente conservato nell’intensità degli affetti, nel gioioso abbraccio del ritrovarsi finalmente di nuovo insieme. Vorrebbe ricucire il tempo della lontananza e ricongiungerlo ai momenti più sereni della presenza, annullare gli interminabili attimi che sono seguiti alla sua partenza, fermare il pendolo che ha scandito vuoti e pigri rintocchi.
Diversa si presenta la realtà. Nella mia nebulosa visione del mondo, si perdono i contorni delle cose, il suo volto sfuma e si confonde con altri più vicini e conosciuti. Non è facile trovare chiodi sicuri in cui fissare incorniciati i ricordi migliori del mio papà. Questa parola, pronunciata talvolta dalla mamma, risuona con un’eco che si perde nel vuoto. I giorni passano e le immagini si confondono, sbiadiscono. Lui esiste, ma appare di una incorporea consistenza. I miei sensi vorrebbero toccare , accarezzare, risentire il timbro marcato, maschile della voce, osservare il suo corpo muoversi nello spazio , raggiungermi nella complicità dei giochi condivisi. Nell’immaginario solo qualche brandello di lui viene trattenuto.
E quando giunge l’ora del ritorno, dopo sei lunghi mesi, un estraneo è colui che varca la soglia della nostra casa. Entra con l’irruenza di chi freme, nell’impazienza trattenuta, di rivedere le persone care. La mamma lo accoglie festosa e mi invita ad avvicinarmi a lui, a lasciarmi avvolgere nel suo caloroso abbraccio. Una fredda sensazione di brivido mi attraversa, irrigidisco le braccia che non vogliono protendersi, abbasso gli occhi per non incontrare il suo sguardo, mi lascio prendere come un corpo inerme e inespressivo e nessun suono esce dalle mie labbra. Sussurra parole dolci che mi attraversano come sibili fastidiosi e non sciolgono il ghiaccio che mi racchiude. Appena lascia la presa scappo via, fra le braccia rassicuranti della mamma. “Ci vorrà tempo”, dice a se stesso “perché mi riconosca”.
Non nasconde la sua delusione. Si aspettava sorrisi, gridi di gioia, qualche esclamazione o parola di esultanza. Il mio mutismo è disarmante per lui, un groviglio rappreso di emozioni indefinite per me. Un mese di pausa, una manciata di giorni , snocciolati lentamente per ritrovare qualche briciola di confidenza e intimità. Una bambola orientale in dono, che sembra una Madonna, avvolta in un lungo abito azzurro con un velo al volto e un paio di scarpette rosse, con decorazioni in oro, ricucite in punta con uno strano ricciolo in pelle. Regali insoliti che portano il profumo del lontano mondo da cui proviene. E poi la grandiosa idea di mettermi il suo cappello in testa. Un oggetto suo di cui posso appropriarmi per sentirmi speciale ai suoi occhi. Finalmente la mia voce risuona per chiedere con insistenza di ripetere questo magico gesto: portare il cappello, enorme per la mia piccola testolina, e trasformarmi, diventare come lui per qualche istante.
Si diverte nel vedere il mio buffo viso seminascosto e io sorrido. Si ravviva un po’ contenuta la spontaneità dei gesti, un’intraprendenza insolita, mitigata dal nascosto timore che qualcosa possa turbare l’armonia ritrovata. Le giornate scorrono senza allarmanti segni di repentini cambiamenti. Ma una mattina nella camera da letto compare la valigia. Troneggia ancora vuota, in attesa di accogliere, ben puliti e ordinati, vestiti ed oggetti che da giorni avevano trovato la loro usuale collocazione. La mamma, ormai esperta in questa operazione, seleziona e sistema con precisione cercando di occupare i minimi anfratti della grande scatola nera. Mi avvicino con l’intento di aiutarla e comincio a spostare mutande, magliette, le camicie ben stirate. Un istintivo e inconsapevole tentativo di opporre la forza della mia determinazione per rallentare e protrarre all’infinito quel rito preparatorio tanto crudele ai miei occhi. La mamma si irrita e mi invita ad allontanarmi: “Lo sai che il papà deve partire? Stavolta andremo anche noi all’aeroporto ad accompagnarlo. Sei contenta?” Domanda insidiosa che non trova adeguata risposta.
La corsa verso Linate è carica di tensione. Papà si agita sempre quando deve partire, teme il traffico, i possibili ritardi, diventa irascibile e conviene non provocarlo. Me ne sto seduta sul sedile posteriore in silenzio con gli occhi smarriti, persi nel paesaggio che non si lascia catturare dallo sguardo e si dissolve al ritmo veloce dell’auto. Un anticipato presagio di ciò che presto accadrà. L’aeroporto si presenta in tutto il suo vorticoso andirivieni. Le voci metalliche degli altoparlanti si perdono nel caotico fluttuare delle persone, cariche di bagagli, che si attardano a consultare tabelloni trapuntati di luci intermittenti o si affrettano a raggiungere le lunghe code della biglietteria. Anche noi ci mescoliamo al magma di gente e ci lasciamo condurre storditi in mezzo a tanta confusione. Potremo accompagnare papà con il pulmino fino alla scala dell’aereo. Sarà un piccolo viaggio dentro il suo grande viaggio. Qualche momento in più per godere della sua presenza. Sospesa tra le sue braccia, vorrei si incollassero alle mie mani che si tengono strette a lui in un impeto di affetto e di paura. Posso solo contare gli attimi prima che avvenga il temuto distacco. Siamo ormai vicini all’enorme uccello alato che presto divorerà il mio papà. Un ultimo frettoloso abbraccio, un bacio stampato perché possa rimanere più a lungo impresso, un incrociarsi di sguardi per imprimere nella mente i suoi grandi occhi cerulei. Nessun pianto interviene a sciogliere la commozione intensa. Tutto si ferma dentro, compresso, solo qualche sospiro ansimante apre un piccolo varco alle emozioni strozzate nel petto e nella gola. La scaletta si ritrae, lo sportello si chiude. Dobbiamo spostarci sulla grande terrazza in attesa che l’aereo decolli. La mamma mi invita a scuotere bene le mani per salutare: “Vedi? , Là c’è papà!“. Ma già la mia mente è lontana, non vuole vedere né sentire. Rispondo incredula e distratta “Davvero?”. L’aereo prende quota e magicamente si solleva, si rimpicciolisce, si confonde in mezzo a uno stormo di uccelli, si dissolve come un pugno di cenere disperso dal vento.
Vola via come un grande aquilone sfuggito dalle mani di un bimbo inesperto, che ora si dispera perché non ha saputo trattenere il filo sottile che teneva legato a sé. Lo vede ondeggiare, sospinto dalle fredde correnti. Nulla può fermare la sua vorticosa corsa nello spazio. Sbiadiranno i suoi colori alla luce accecante del sole e la pioggia scioglierà i disegni dipinti sulla sottile carta. Su quale misterioso pianeta si poserà? Forse lo accoglieranno le morbide praterie della sabbia africana e potrà distendersi per riposare, come nelle calde giornate estive trascorse al mare, a costruire insieme favolosi castelli. Rimango con la testa rivolta verso l’alto a fissare l’azzurro infinito mentre un’ umida nebbia cala sui miei occhi......
Anche ora che l’ultimo suo viaggio si è compiuto verso un altrove remoto, non ho perso l’abitudine di osservare il cielo. Cerco tra le nuvole che si addensano e si sfanno qualche minuscolo punto luminoso che si muova nella mia direzione. Seguo le scie degli aerei che si perdono in lontani orizzonti. Contemplo il luccichio tremolante delle stelle per catturare quella che si sposta e fiammeggia nelle tenebre di una luce rossa. Mi lascio avvolgere dal chiarore lunare che accende l’immensità della volta celeste e ancora rimango con la testa rivolta verso l’alto a fissare, in silenziosa attesa.
Il tempo dell’attesa ha scandito i suoi rintocchi negli anni della mia vita. L’attesa col pensiero sospeso che si invola e percorre distanze infinite, un sospiro nostalgico che dilegua nei tramonti rosati, una nascosta speranza, nutrita di rinnovate promesse, di vedere un ritorno che sia annuncio di una nuova fioritura.
Ho imparato a rimanere, radicata nella presenza, per occupare il posto degli assenti, per garantire un porto affettivo sicuro a chi resta e a chi parte, sospinto dal desiderio di esplorare l’immensità del mondo, sfidando l’incertezza del suo destino. Rimanere per risentire ogni volta lo stesso improvviso sobbalzo del cuore nel momento estremo del distacco. Stare e partire, fissità e movimento hanno lasciato il loro ruvido segno nelle pieghe della mia esistenza. A un recente concerto in onore di De Andrè ho risentito una sua vecchia canzone: “Inverno”. Una sorpresa, un incanto. Una musica dolce e melanconica che rinnovava in pienezza alcuni miei sentimenti. Nella tristezza di un paesaggio invernale compare un campanile che ha le parvenze di un cipresso. Svetta nella sua verticalità e sembra congiungere la terra e il cielo, due estremi, segnati da un’incommensurabile distanza, trovano un intimo e segreto raccordo. Poi il ritornello: «Ma tu che vai, ma tu rimani / vedrai la neve se ne andrà domani / rifioriranno le gioie passate / col vento caldo di un'altra estate». Un invito, carico di segrete aspettative, a non partire, ad attendere, nel rinnovarsi delle stagioni, il rifiorire delle gioie passate e di un nuovo amore. Un irrefrenabile desiderio di trattenere, di fermare il punto che tenta di sfuggire per ancorarlo al presente. Ma nel lento trasmutare della natura, nell’alterno avvicendarsi di luci e di ombre, anche la vita dell’uomo muta il suo corso e si adegua a quel senso di precarietà che è dentro il ritmo naturale delle cose. «Ma tu che vai, perché rimani?» dice alla fine la canzone. Una domanda che inverte la direzione da seguire sul cedevole terreno da percorrere e apre nuove imprevedibili strade. Il viaggio non si può fermare. Il viaggio di chi è quasi arrivato alla meta e di chi ha da poco intrapreso il suo cammino.
Ora che la vita non dispiega più a braccia aperte i suoi giorni, anche il mio viaggio potrebbe iniziare. Lasciare gli ormeggi e prendere il volo, solcare lo spazio e avvicinarmi qualche volta alle stelle, navigare per un poco sulle nuvole e osservare quanto tutto della terra si fa piccolo da quella diversa prospettiva. Il mio amore per il quotidiano che si distende ed abbraccia l’orizzonte infinito.
Per anni ho rivissuto nei racconti dei miei studenti stranieri il fascino di culture diverse, contemplando nell’immaginario la bellezza di paesi mai esplorati. Nelle loro storie che parlano di distacchi improvvisi, di inevitabili separazioni, di un nostalgico rimpianto per gli affetti perduti, ho rivissuto parte del mio stesso dolore. Anche questo è un andare e tornare dalle terre più volte battute del mio lontano passato.
Vorrei così poter preparare la mia valigia, disporre con ordine le mie cose, varcare la soglia della mia casa per raggiungere insolite mete e sentire che dentro questo flusso perpetuo della vita c’è un tempo per stare e un tempo per partire.


Sulla rubrica Squarci
Se la scrittura si serve di aghi e coltelli, se punge e lacera, se ogni pagina apre un varco in mezzo all'ovvio e al non detto, se la ragione ha bisogno di attimi di illucidità, se ogni testo si apre su un paesaggio interiore, se è un buco della serratura da cui spiare il mondo, se duole, se è una lama nella carne, se è una trama interrotta in un punto a caso, se la narrazione si spezza come un canto, se è una dissonanza, se semplicemente siete curiosi di sapere chi siamo. Estratti, ferite, fenditure di scrittura, un modo per sentire i nostri silenzi e leggere tra le righe di ciò che abbiamo in cantiere.