Squarci | lunedì 8 dicembre 2014

Laura Canciani

Caducità e narrazione

Questo breve testo è tratto dalla parte conclusiva di un’autobiografia che sto portando a termine… È dunque un’anticipazione, in cui si raccolgono le fila di un discorso di vita per trasformarle in una meditata consapevolezza o in una consapevole meditazione. Come si preferisce…
L. C.




La riflessione sulla caducità della vita incrocia e accomuna nel tempo e nello spazio interrogativi e percorsi di ricerca che riconducono a un‘unica vera certezza.
La morte ci accompagna inesorabilmente, “insonne e sorda, come un vizio assurdo o un vecchio rimorso”, diceva Pavese. Quando non mostra apertamente il proprio volto strappandoci gli affetti più cari, si insinua nel corpo subdolamente per ricordarci il nostro destino.
Quale nitida e chiara teoria può seguire l’uomo che procede incerto nell’oscurità del suo cammino? Quale saggezza sicura abbracciare per contrastare il dolore?
La logica sottrattiva, proposta nella spiritualità orientale e anche nella tradizione religiosa occidentale, tende a estinguere il desiderio, fonte di ogni sofferenza, opponendosi allo stile di vita che accumula e asseconda i piaceri terreni nell’ illusione di attutire l’inquietudine e il senso di precarietà. Per sfuggire al pericolo della dispersione dell’anima, rapita da miraggi apparentemente appaganti , si corre il rischio della chiusura in un freddo distacco, che blocchi ogni partecipazione emotiva. La paura del trapasso viene esorcizzata, senza che si aprano prospettive salvifiche convincenti.
Anche nel panorama culturale del ’900 non compaiono facili approdi, che schiudano verità e certezze. Di fronte all’angoscia e al male di vivere si preferisce il silenzio, rotto solo dalla voce di chi cerca con lucida consapevolezza le ragioni profonde di tale disagio. E la religione, nata proprio in risposta al sentimento della caducità, perde i suoi contorni definiti, si trasforma in un flebile canto che consola: lenisce ma non salva dall’ inesorabile destino.
Che cosa resta allora all’uomo se non la possibilità di accogliere dignitosamente la propria pena, nella ‘religiosa’ fiducia che la vita abbia un valore intrinseco, nonostante tutto?
Quando il Dio della salvezza eterna sfuma nel regno dell’immaginario, questa (mi) sembra una scelta accettabile.
È possibile pensare percorsi di vita che, nella loro brevità, rimandino ancora a un senso di precarietà, ma forse più accettabile ? Che si configurino come espressione di una strategia oppositiva che spezzi la linea del dolore e aiuti a sopravvivere al meglio? Piccoli intervalli che diano respiro e sollievo all’esistenza?
L’atteggiamento di fondo credo sia quello del viandante. Si cammina nelle tenebre, guidati da qualche stella o cometa; si illumina il percorso per qualche breve tratto e poi di nuovo torna il buio. Nell’attesa di una nuova luce che può comparire finché c’è vita.



Sulla rubrica Squarci
Se la scrittura si serve di aghi e coltelli, se punge e lacera, se ogni pagina apre un varco in mezzo all'ovvio e al non detto, se la ragione ha bisogno di attimi di illucidità, se ogni testo si apre su un paesaggio interiore, se è un buco della serratura da cui spiare il mondo, se duole, se è una lama nella carne, se è una trama interrotta in un punto a caso, se la narrazione si spezza come un canto, se è una dissonanza, se semplicemente siete curiosi di sapere chi siamo. Estratti, ferite, fenditure di scrittura, un modo per sentire i nostri silenzi e leggere tra le righe di ciò che abbiamo in cantiere.