Squarci | giovedì 21 agosto 2014

Serena Ammendola

Iris

Capelli biondi, lunghissimi, inanellati in cento e cento boccoli, dorati,
lucidi. La capigliatura di un angelo. Pantaloni turchini, una graziosa
camicetta bianca con le maniche a palloncino, permanenza di un tratto
infantile in una donna cresciuta, di malavoglia, troppo rapidamente. Sul
petto, annodato sui fianchi sottili con due precisi e curati fiocchetti, un
grembiule da giardinaggio cucito dalle sue stesse mani, straripante di fiori
di tutti i colori più belli.
Iris, sempre sorridente ormai solo per abitudine, curava le sue piante - a
nessun altro era consentito mettervi mano - nel bel cortile della sua
casetta di periferia.
Dall'interno della casa un pianto sommesso, lontano.
Nessun'altra casa abbastanza vicina per avere qualcuno con cui scambiare
due parole. Sarebbe stato sufficiente anche solo quello, in qualche
momento, poter sfogarsi con una persona amica, sarebbe servito ad
alleggerire il peso di una fatica quotidiana troppo pesante per sostenerla
da sola.
Le piante, invece, solo le piante, e i loro fiori che crescevano rigogliosi e
fieri, fortunatamente, a dispetto di tutto. Camelie, ortensie, glicini,
gelsomino... Profumi e colori inebrianti, nei quali perdersi e dimenticare.
E l' iris. Molti preferivano chiamarlo giaggiolo: più musicale, forse, certo
più popolare. Ma Iris era nome molto più affascinante, evocatore di un
mondo che vi leggeva dentro addirittura l'arcobaleno. Come amava, Iris,
perdersi nei colori... L'iris, poi, le aveva prestato il suo nome; lei gliene
era grata ripagandolo con attenzioni maggiori di quante ne riservasse a
qualunque altro fiore. Ne conosceva le proprietà officinali, aveva
imparato a sfruttarne le doti. Ne accarezzava i petali, con affetto.
I raggi del sole la abbracciavano caldi e Iris maneggiava con sicurezza le
cesoie. Doveva sfoltire i rami del gelsomino, quel giorno. Era diventato
pesante e si doveva evitare che gravasse sul muro a secco sul quale
cascando poggiava.
Dall'interno della casa, un pianto più intenso, agitato.
Era facile usare quelle forbici per le piante, lo faceva quotidianamente
con gesti decisi, rapidi e consapevoli. E tagliava, tagliava.
Il pianto era più forte.
Iris non era sola. Da un anno.
Da un anno c'era il suo bambino.
In ospedale le avevano detto che era bellissimo: tale e quale a lei! E
meno male perché del padre si erano rapidamente perse le tracce,
appena saputa la "novità". Se il piccolo ne avesse ricordato le fattezze
sarebbe stato solo un inutile, amaro promemoria.
Iris aveva solo 18 anni e, prima di Luca, un futuro luminoso davanti a sé,
punteggiato di sogni come il cielo dalle stelle d'estate. Sempre
apprezzatissima a scuola, amava le scienze e sognava una carriera da
ricercatore botanico, magari in Australia o in Canada.
D'improvviso Iris cominciò a ridere. Rideva da sola, in giardino, forte. L'
unica pratica botanica che le rimaneva era quella di quei momenti
dedicati alle piante del cortiletto della sua casa nella campagna umbra.
Niente Università. I suoi avevano provveduto affinché non le mancasse il
necessario ma l' avevano lasciata sola a gestire il suo "guaio".
E quel guaio, ora, gridando la richiamava in casa.
Iris non voleva sentire.
E quelle cesoie così leggere e ubbidienti tra le mani...
Non aveva avuto il coraggio di evitare il problema, come pure le avevano
suggerito i parenti. Non per convinzioni religiose particolarmente radicate
né per un senso etico troppo acceso. Semplicemente paura.
A saperlo che quella paura sarebbe stata sostituita da una paura più
forte, l'angoscia del presente. Quella di non saper sperare in un domani
migliore.
Luca piangeva più forte. Iris tagliava i rametti del gelsomino con
maggiore foga.
Il sole cominciava a scottare. Meglio stare fuori, comunque. Almeno la
sensazione di respirare libertà...
Luca urlava. Sembrava disperato.
Ancora un rametto. Come si fa veloce con queste forbici...
Ancora uno strillo.
Basta.
Iris deve rientrare. Luca che strilla è insopportabile.
Iris porta con sé le cesoie e si avvicina alla culla dove Luca,
immediatamente smettendo di piangere, l'accoglie con un sorriso ospitale
quanto solo quello di un bambino può essere.
Iris depone le forbici da giardino per terra.
Abbraccia suo figlio e si asciuga le lacrime.


Su Serena Ammendola
Serena Ammendola è nata e vive a Napoli dove insegna Lettere al liceo scientifico G. Mercalli. Scrive per non dimenticare ciò che vede, per incidere ricordi nella memoria. Ama meravigliarsi. Sempre. Fotografa l’orizzonte; è alla continua ricerca di colori da catturare con lo sguardo e con l’obiettivo. Non può fare a meno del blu ma ogni colore ha qualcosa da suggerirle.

Sulla rubrica Squarci
Se la scrittura si serve di aghi e coltelli, se punge e lacera, se ogni pagina apre un varco in mezzo all'ovvio e al non detto, se la ragione ha bisogno di attimi di illucidità, se ogni testo si apre su un paesaggio interiore, se è un buco della serratura da cui spiare il mondo, se duole, se è una lama nella carne, se è una trama interrotta in un punto a caso, se la narrazione si spezza come un canto, se è una dissonanza, se semplicemente siete curiosi di sapere chi siamo. Estratti, ferite, fenditure di scrittura, un modo per sentire i nostri silenzi e leggere tra le righe di ciò che abbiamo in cantiere.

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