Squarci | domenica 20 ottobre 2013

Nunzia Clemente

I Giardini sotto la pioggia.

Avevo sette anni quando conobbi Reiko. O, per meglio dire, avevo sette anni quando conobbi realmente chi era.
Le nostre madri si frequentavano con una certa assiduità, per spettegolare degli argomenti più vari. Dalla Guerra Fredda che in quegli anni imperversava come un’ ombra oscura e minacciosa dall’Occidente all’Oriente, fino ai loro segreti per condire le patate farcite. Noi bambine eravamo confinate nei pochi tatami del genkan, l’ ingresso. Reiko tirava fuori le sue bambole e giocavamo a fare le mammine, senza sapere che ragazzine di pochi anni più grandi di noi si ritrovavano ampiamente in quella situazione.
In un giorno di maggio, durante una delle frequenti visite a casa Takahashi, Reiko mi raggiunse nello genkan con una certa serietà e trepidazione che non facevano parte di lei. Era una ragazzina molto tranquilla e silenziosa, al pari di me. Erano rari, i lunghi discorsi tra di noi. Ci limitavamo a pettinare le bamboline di pezza, a scambiare qualche parola, e i saluti. Ma nulla di più, nessun discorso complicato. Per quanto complicato possa essere un discorso tra due bambine di sette anni.
- Mio padre ha comprato un giradischi, Hutago – mi disse seria, come se mi stesse confessando il segreto più importante del mondo. – E mi ha dato il permesso di usarlo, purché stia ben attenta a non graffiare nulla. –
- Io non ho mai ascoltato un disco – le confessai, candidamente. – Com’ è, è bello? –
Reiko chiuse gli occhi, e tirò un gran sospiro. Io la osservai. Era come se lei stesse camminando sulle nuvole, gioiosa, colpita dai raggi di sole e dalla brezza fresca, illuminata dalla conoscenza di qualcosa di trascendente, e io, comune e ignorante mortale, stavo lì a fissarla. – È bellissimo, Hutago. Vieni, andiamo ad ascoltare qualcosa. Le bambole mi hanno annoiata. –
Con trepidazione, seguii Reiko su per la scalinata. Reiko mi fece accomodare sul divano, mentre lei preparava i vinili da inserire nel giradischi. Rimasi a osservare i suoi capelli scuri illuminarsi alla tenue luce del sole di maggio, un sole acquoso, tipico di quelle giornate dove dopo la pioggia un arcobaleno si staglia prepotente nel cielo. Corpuscoli di polvere svolazzavano tutti intorno. Reiko iniziò il suo rito, come una fedele adepta recita fedelmente i salmi riportati nel suo libro di preghiere. Prese un vinile dallo scaffale più basso, lo estrasse dalla confezione e dalla carta patinata e poi, prendendolo delicatamente per i bordi, lo appoggiò sulla base, sotto la puntina. Ci fu un crepitio iniziale, e io e Reiko, insieme, trattenemmo il fiato. Poi la voce del periodo d’oro di Edith Piaf si diffuse lentamente nella stanza. Reiko mi sorrise, e poi prese posto accanto a me. Era come se il suo corpo emettesse vibrazioni quasi impercettibili. Capii che avevo conosciuto Reiko.
Non so quante volte ascoltammo quel vinile della Piaf. Mi viene da pensare che sia davvero un miracolo che non si sia spaccato in due, tanto era rovinato. Poi capitò, qualche mese dopo, che Reiko mi raggiungesse nello genkan con la stessa espressione seria e compita di quando suo padre aveva comprato il giradischi.
- Ho qualcosa di nuovo da farti sentire, Hutago. –
- Qualcosa di meglio della Vie en rose? – dissi io, togliendomi le scarpe, incespicando con la mia pessima pronuncia francese.
Reiko annuì, serissima. – Qualcosa di bellissimo. –
Seguii Reiko al piano superiore, e iniziò di nuovo il rito. Io, ospite d’ onore, seduta sul divano, Reiko come una brillante valletta aiutava il conduttore della trasmissione, ossia il giradischi ad conseguire brillantemente la sua opera. Ci fu il solito crepitio iniziale, Reiko venne a sedersi accanto a me.
Noti forti, violente.
Una piccola pausa.
- Si intitola Jardins sous le pluie. È di Claude Debussy, c’è scritto. E papà mi ha detto che è vissuto tanto, ma tanto tempo fa. – bisbigliò Reiko Takahashi, in una sorta di adorazione mistica.
Jardins sous le pluie.
Mai titolo mi sembrò più corretto, nella mia mente di bambina di sette anni.
Sembrava un temporale, quella sonata. Mi piaceva immaginare che quel Claude Debussy, in un bel giorno estivo, stesse facendo un giro nel suo giardino. Così, tanto per passare il tempo, per osservare le sue rose ben coltivate ergersi fiere al sole cocente. E poi, all’ improvviso, una goccia di pioggia, grossa quanto un chicco di grandine gli cade sulla testa. Claude alza lo sguardo, sente la pioggia andargli sul viso. Cammina veloce, per ripararsi sotto a un porticato, ma all’improvviso un raggio di sole squarcia l’aria. Debussy contempla il giardino ormai fradicio. E poi un tuono interrompe quella visione idilliaca. Un’ altra pausa. E ancora. E ancora. E ancora.
Quel pomeriggio, io e Reiko Takahashi entrammo in contatto con la vita. E Reiko capì perfettamente la strada che avrebbe intrapreso nella sua vita.
- Hutago, ti prometto che io imparerò a suonare il pianoforte. – mi disse solennemente, guardandomi dritta negli occhi. Aveva gli occhi come due grosse gocce di inchiostro nero. – Imparerò a suonare il pianoforte, e poi imparerò a suonare questa Jardins sous le pluie. E poi andrò a suonare nei più grandi teatri del mondo. E ogni volta che suonerò, mi alzerò e di fronte a tutti dirò: Questo lo dedico alla mia amica Hutago Sakou, che per prima ha ascoltato con me il signor Claude Debussy. E tutti si alzeranno in piedi e mi applaudiranno… come quando abbiamo visto Edith Piaf esibirsi a Parigi, ricordi? Tutto il teatro era in piedi ad applaudirla… e ci sarai anche tu, Hutago! Mi seguirai per il mondo, e io ti dedicherò Jardins sous le pluie ovunque andremo! –
- Sì, hai ragione, Reiko – affermai io, con tutta la convinzione dei miei sette anni – Ti seguirò ovunque andrai, seguirò te e il tuo pianoforte! E seguirò tutti i tuoi concerti, tutti! E qui in Giappone saranno orgogliosi di te! –
Reiko Takahashi mi sorrise, dolce. Prese una mia mano tra le sue, e io sentii come se mi si dovesse sciogliere il corpo, come se cera bollente mi colasse addosso. Poi Reiko mi diede un bacio sulla guancia. Un bacio molto casto, un bacio di affetto dato da una bambina a un’ altra bambina.
Ma dopo quel bacio, non smisi mai di pensare a Reiko Takahashi.

Gli anni passarono in fretta. I Takahashi si spostarono da Ueno a Shinjuku, il che comportava un certo spostamento con la metropolitana, e mia madre cominciò a diradare le sue visite alla signora Takahashi. Sembrò non soffrirne più di tanto. Da parte mia, continuai a frequentare la casa di Reiko, anche se ormai i nostri caratteri differenti andavano delineandosi. Reiko era una ragazza molto dotata, e non era mai venuta meno alla sua promessa. Studiava davvero pianoforte, e ormai era alla conclusione del suo ottavo anno al Conservatorio di Tokyo. Io mi trascinavo ormai alla fine dei miei anni di liceo, e mi accingevo a guadagnarmi un posto in un’università qualsiasi. Ero piuttosto svogliata, atarassica. Erano gli anni Settanta, anni di rivoluzione. Si respirava un vento pesante di protesta in qualunque parte del Giappone, in qualunque parte del mondo. Dovunque si ascoltavano rivoluzionari arringare per la propria causa. Bisogna cambiare il sistema, il Capitalismo non è la via maestra! Vogliamo perdonare chi ha raso al suolo Hiroshima e Nagasaki? Insomma, non avevano tutti i torti. Erano i mezzi che mancavano. D’altro canto, io mi limitavo a mettere i miei jeans a zampa di elefante, a farmi crescere i capelli, ad ascoltare i Black Sabbath e i Pink Floyd. Non ascoltavo molto Edith Piaf e Claude Debussy. Tantomeno ascoltavo i Jardins sous le pluie, i Giardini sotto la pioggia. Li relegavo in un antro oscuro della mia anima che raramente aprivo, come quando si rinchiude tutto quello che non serve in uno sgabuzzino per poi svegliarsi in una domenica di estate e decidere di fare le grandi pulizie.
Un giorno, durante il mio primo anno di università, Reiko mi chiamò a casa. Mi disse di andare da lei. Riconobbi nella sua voce quella tonalità calma e solenne che anni e anni prima aveva usato per presentarmi il suo prezioso giradischi. Non me lo feci dire due volte. Presi la metropolitana da Ueno a Shinjuku, andai subito a casa sua. Lei mi accolse con un sorriso sulle labbra, gli occhi color inchiostro splendenti. I suoi lunghi capelli, neri e setosi, erano raccolti in una treccia lunga, che lei adagiava sulla spalla sinistra. Lei piegò appena la schiena, poi si fece da parte per farmi entrare nello genkan. Io mi tolsi le scarpe, poi le dedicai la mia attenzione. Allora piccola Takahashi, le dissi, cosa c’è di tanto importante da dirmi?
Lei mi sorrise. – Ho imparato a suonare Jardins sous le pluie. Debussy. Ricordi? Te lo avevo promesso. –
Scoppiai in una sonora risata. – Ah, Reiko Takahashi, non mi deludi mai! –
Lei mi portò nel salotto. Un imponente pianoforte a coda era posizionato nel bel mezzo, rimpicciolendo sensibilmente l’ambiente. Io mi sedetti sul divano, come al solito. Lei si mise al piano. Suonò perfettamente I Giardini sotto la pioggia, mentre io mi beavo delle note emesse nell’ aere. Quando poi ebbe finito, la giovane pianista venne da me. Si inginocchio al mio cospetto.
- E questo qui è per te, mia dolce Hutago … -
La sua bocca, come due petali di rosa, si posò sulla mia, in un bacio delicato e inesperto. Dapprima io rimasi fredda, non riuscivo a risponderle. Poi quando la sua lingua cercò la mia, non ebbi il coraggio di rifiutarla.

Quel pomeriggio, feci l’amore per la prima volta. Con Reiko. Non avevo avuto nessuna esperienza prima, ma non mi pentii di aver aspettato diciannove anni prima di provare un orgasmo. La sua lingua mi scioglieva dal di dentro, le sue parole mi accarezzavano i timpani come nemmeno Debussy aveva fatto.
- Oh, Hutago, Hutago … era tanto tempo che desideravo farlo … mia Hutago … - mi sussurrava, accarezzandomi piano i capelli.
- Non mi lascerai mai, vero, Reiko? –
- No, non ti lascerò mai, Hutago, mai. –

In seguito, avrei preferito non averle mai chiesto una cosa del genere.

Io e Reiko continuammo la nostra relazione. Io arrivai al terzo anno di Lingue Straniere senza grosse difficoltà, lei concluse brillantemente il Conservatorio. Iniziarono a chiederle collaborazioni per teatri locali, fece qualche concerto. Io assistetti quando potei, e il cuore mi si colmava di gioia quando vedevo i suoi occhi scuri dardeggiare sulle file di sedie, alla ricerca di me, alla ricerca della sua Hutago.
Una domenica di marzo mi aveva invitata a pranzo a casa sua. I suoi erano andati nel Kanto a trovare parenti lontani, avremmo avuto la casa tutta per noi, prima che i suoi ritornassero il lunedì. Io portai un vinello italiano che un amico mi aveva portato recentemente, di ritorno da un suo viaggio in Toscana. Ma mi accorsi subito che non ci sarebbe stata occasione di gustarlo insieme.
- Cosa c’è, Reiko? Sei strana, non mi piaci oggi. –
Reiko si morse un labbro. Lasciò da parte il suo brodo di miso, poi prese la bottiglia di vinello toscano, lesse attentamente le indicazioni geografiche.
- Sai – sussurrò – Mi hanno proposto un contratto a tempo indeterminato proprio nelle zone da dove proviene questo vino. –
Sentii un fiotto di vomito salirmi alla gola. Le mani iniziarono a tremare. Calma, Hutago. Calma. Calma.
- E tu cosa hai intenzione di fare? – dissi, con la voce già impastata dal pianto.
Reiko tirò un lungo sospiro. – È una buona occasione, Hutago, lo sai … -
- Una buona occasione, diamine della buona occasione! E a me non ci pensi?! –
Reiko mi guardò fissa negli occhi. – Vieni con me. Vieni con me o la piantiamo qui. –
Mi coprii la bocca con una mano per impedirmi di urlare. No. Non potevo. Avrei abbandonato tutti i miei equilibri, la mia famiglia, i miei studi incompleti …
- Non posso, Reiko. Non posso. –
Reiko tirò su col naso. – Lo sospettavo, Hutago. Ti conosco troppo bene ormai. –
Aggirai il tavolo, la tirai su e la baciai con una violenza che non avevo mai usato prima di allora. – Non proverò a farti cambiare idea, Reiko. Sei una testaccia dura. –
Reiko tentò un debole sorriso. – Anche tu mi conosci bene. –
La baciai ancora, con disperata dolcezza.
- Ci rivedremo, Reiko? Ci rivedremo, un giorno? –
Reiko abbozzò un altro sorriso. – Forse, Hutago mia. Forse. –
Incapace di trattenere le lacrime, scappai fuori da casa sua. Vagai per Shinjuku, e finii in un cinema da quattro soldi dove trasmettevano a ripetizione lo stesso film. Vidi almeno tre volte A qualcuno piace caldo con Marylin Monroe prima di avere il coraggio di immettermi di nuovo tra le corsie del mondo.

Hutago fu trovata impiccata a una trave del soffitto il lunedì seguente, dai suoi genitori. Io non vidi il suo corpo. Sentii i particolari dai giornali, che ne fecero un caso drammatico. Una giovane e promettente pianista trovata impiccata in casa sua. Questo sì che era un titolone, per la media borghesia bramosa di notizie su cui ciarlare nelle noiose sere afose. Secondo i giornali, fu trovata una bottiglia vuota di vinello toscano sul tavolo dalla polizia. E dai racconti straziati dei genitori, si evinceva che il giradischi era ancora in funzione quando erano tornati. C’era un vinile di Debussy, Jardins sous le pluie. Tutti lo interpretarono come un ultimo ed estremo gesto di avvicinarsi alla sua grande passione anche essendo prossima alla morte. Ma io, dentro di me, sapevo la verità. La sapevo. Sapevo che quella era un’ultima dedica della mia Reiko. Sapevo che la giovane e talentuosa Reiko Takahashi aveva dedicato ancora una volta a Hutago Sakou Jardins sous le pluie.


Questo lo dedico alla mia amica Hutago Sakou, che per prima ha ascoltato con me il signor Claude Debussy.




Su Nunzia Clemente
Navigante per mare procellosi, approdata quasi per caso nel caos ordinato dell'Orientale. Nata tra monti deturpati, pendolare d'obbligo e per passione, ama donare fiori e libri, questi ultimi scovati in qualche scantinato polveroso. Il suo sogno nel cassetto (ancor più segreto della scrittura), è lavorare in una stazione ferroviaria di campagna, possedere una cascina e un pergolato in fiore.

Sulla rubrica Squarci
Se la scrittura si serve di aghi e coltelli, se punge e lacera, se ogni pagina apre un varco in mezzo all'ovvio e al non detto, se la ragione ha bisogno di attimi di illucidità, se ogni testo si apre su un paesaggio interiore, se è un buco della serratura da cui spiare il mondo, se duole, se è una lama nella carne, se è una trama interrotta in un punto a caso, se la narrazione si spezza come un canto, se è una dissonanza, se semplicemente siete curiosi di sapere chi siamo. Estratti, ferite, fenditure di scrittura, un modo per sentire i nostri silenzi e leggere tra le righe di ciò che abbiamo in cantiere.