Squarci | domenica 20 ottobre 2013

Nunzia Clemente

Lacryma Christi

Giuseppe, detto familiarmente Peppe, undici anni ed occhi neri come la pietra ematite, dono ereditato da parte di madre, alle cinque di quel mattino sbarrò gli occhi e si levò a sedere sul letto. Con quella che gli parve un'immane prova di coraggio, soffocò uno sbadiglio particolarmente molesto e cercò i vestiti sparsi per la camera, tra un pallone da calcio e modelli di aeroplanini che, in tempi più felici, aveva costruito con papà. Fissò per un attimo le ali di legno bene incollate con la colla vinilica, poi si riscosse. Non poteva perder tempo, quella era una mattina importante.
"Ciao, mamma". Peppe si alzò leggermente in punta di piedi e schioccò un bacio sulla guancia della madre. Sarebbe stato impossibile non riconoscere i geni che gli avevano donato quegli occhi scuri e conturbanti, che tanto avrebbero fatto penare le ragazzine, qualche anno più in là, così come quelli della madre avevano incatenato tanti cuori.
"Già sveglio, Giuseppe?" sua madre, il bel volto stanco e tirato dalle preoccupazioni, dal dolore, dalla fatica, gli sorrise. Un sorriso che partiva dagli occhi per estendersi fino al cuore. Peppe ne era sempre molto colpito. Mamma, sei così bella pensò, ancora una volta.
"Questo è un giorno importante" disse, con tutta la serietà possibile per i suoi nove anni. La donna sorrise e gli carezzò dolcemente il mento.
"Lo so, cucciolo. Sono così immensamente felice che Don Ciccio ti abbia permesso di prendere parte alla funzione. E' una cosa molto seria."
Peppe annuì, vigorosamente. "Non vedo l'ora di andare in chiesa, ho tante cose da fare, devo vestirmi, e... e..."
Sua madre rise di cuore. "Devi solo mettere il vestito e stare con Don Ciccio come se fossi un segugio, capito? Mi raccomando, lascia in pace gli adulti. Non dar loro fastidio."
Peppe annuì ancora, serio come mai era stato prima d'allora. Si sentiva investito di una carica importante, il cuore gonfio d'orgoglio, come se avesse il petto trapunto di medaglie. Un comandante vittorioso ancor prima di aver combattuto la battaglia. La donna gli porse un sacchetto dall'odore invitante.
"Mi hai fatto la crostata?!" Peppe annusò speranzoso, tastando il contenuto. L'odore della pastafrolla si sprigionò nell'aria, odore di genuino, di bontà.
"Alla marmellata d'albicocche", ci tenne a precisare la donna.
"Ma... mi hai sempre detto che durante il Venerdì non si deve mangiare. Soprattutto i Penitenti..."
"Tu sei un bambino, Giuseppe. Non sei un Penitente. Devi camminare molto ed hai bisogno di mangiare. Il tuo è un cuore puro."
Peppe annuì e rubò un pezzo di crostata dal sacchetto. Era squisita come solo sua madre sapeva farla. Ma da quando papà se n'era andato (come? Con chi? E perchè, poi?), c'erano state ben poche occasioni in cui aveva potuto assaggiare la crostata. Il fatto che sua madre l'avesse fatta proprio quel giorno, non faceva altro che aumentare il senso di attesa per la giornata che si prospettava.
"Ora vai, forza. Non far attendere Don Ciccio." Peppe s'infilò la giacca goffamente, tenendo ben stretto tra le mani il fagotto col dolce. "Vai piano per la strada, non correre e non prendere quelle tue scorciatoie segrete." Il ragazzino schizzò via veloce come un fulmine. "Ah, e mi raccomando, di' a Don Ciccio che Agnese arriverà alla solita ora e al solito posto!"
Peppe urlò qualcosa in risposta, ma ad Agnese bastò. L'osservò correre sui ciottoli, saltellare entusiasta da una pietra all'altra. Sorrise, sospirando. Quanta gioia nell'affrontare un Venerdì di penitenze e di sacrifici. Che cuore puro, non aveva timore di prender parte a quella che per molti era davvero una giornata di dolori e di espiazione. Si versò del tè caldo dal bollitore, sedendosi al tavolo. Istintivamente, infilò la mano nella scollatura e posò la mano sul seno, trovandovi il rosario dai grani in legno, appena lavorato, grezzo e vero. Chiuse gli occhi, poggiando la fronte sul palmo, ed iniziò la prima, personale preghiera di quell'amara giornata di Passione. Con Cristo ed in Cristo.

Peppe correva a perdifiato. Era sempre il migliore nella corsa, quando giocava a calcio faceva sempre l'attaccante, perchè correva dietro al pallone e riusciva a raccoglierlo ovunque. Ovunque. Nelle stradine isolate, nei vicoletti, sui balconi degli sconosciuti, se Peppe aveva un pallone da recuperare, lo recuperava. Ora correva lungo quelle stradine così familiari, ma gli sembravano diverse. Forse perchè mai aveva avuto il permesso di uscire così presto al mattino, quando appena il sole sembrava giocare a nascondino tra i monti. Sentiva il suo cuore fare tump tump tump, come quello di un pettirosso. Peppe si sentiva molto un pettirosso: era piccolo, veloce, sentiva sempre il suo cuore fare tump tump tump. L'aveva detto anche alla mamma. Mamma, secondo me sono un pettirosso. L'ho preso tra le mani e sentivo che il suo cuore batteva forte come il mio. Sua madre aveva riso, gli aveva carezzato, come faceva di solito, il mento, dicendogli che il suo cuore batteva forte perchè era un cuore puro. Peppe non riusciva a spiegarsi molto bene questa frase, ma gli piaceva come suonava. Quindi, l'accettò in silenzio.
Corse lungo salite tortuose ed antiche e, contro le ammonizioni materne, prese la sua scorciatoia segreta: imboccò un portone antico e buio, salì delle scale pericolanti e si intrufolò in un appartamento abbandonato. Per un istante, il cambio repentino tra l'aria fresca e pungente del mattino e l'aria polverosa di quel bugigattolo lo fece star male, ma si riprese in fretta. Nonostante l'aspetto da pettirosso, era resistente. Con passi esperti si diresse verso il lato opposto della stanza, spostò alcune assi da un'apertura, facendo filtrare la luce, ed uscì fuori, ritrovandosi nella piazza principale del paese. Vide una figura bassa e tondeggiante avviarsi verso la Chiesa.
"Don Ciccio! Don Ciccio, aspettatemi!"
Il parroco, Don Ciccio, soffocò uno sbadiglio. Non andava bene farsi vedere affaticato dai fedeli, anche se il fedele in questione era un bambino.
"Peppi', è ancora abbastanza presto... cosa ci fai già qui?" l'uomo lo scrutò sospettoso, in cerca di rimproveri da fare, non trovandone.
"Mi sono... svegliato... presto". Ansante, Peppe si sedette sui gradini della chiesa, in attesa che Don Ciccio tirasse fuori il suo imponente mazzo di chiavi.
"Bravo Peppino. Significa che mi darai una mano a preparare l'incenso."
Peppe annuì, divorando la crostata. "Ha detto Agnese... ops, ha detto la mamma, che verrà alla solita ora, al solito posto."
Don Ciccio tirò un sospiro di sollievo, infilando la chiave nella toppa dell'antico portone. "Sia lodato Gesù Cristo."

*

Venerdì Santo. Giorno di penitenza, di rimorsi, di morte in attesa della resurrezione. S.sembrava un paesino uscito fuori da un libro di fiabe illustrato da un brillante, ma classico disegnatore: casette in pietra, viuzze tortuose, la piazza piccola ed accogliente, un borgo antico e pieno di segreti misteri. Una manciata di anime brulicanti che riviveva anima e corpo il supplizio di Cristo, insieme a Cristo. Dalle prime luci dell'alba, i Penitenti sfilavano lungo le strade cittadine, . Incappucciati, irriconoscibili. Soltanto il parroco, che aveva donato loro il saio, il cordone ed il cappuccio, conosceva la vera identità di quelle anime segnate. Il peccatore osserva, ma viene sottratto allo scorno.
Il peccato è maschile, la grazia femminile. Lamenti di donne accompagnano il cammino dei novelli crocifissi da innumerevoli decenni. Senza mai stancarsi. La parola era vietata: se c'era da comunicare qualcosa, lo si faceva con lo sguardo. Le fessure dei cappucci erano mezzi più che sufficienti.

*

Queste cose non fanno più per me. Don Francesco Rustichelli, Don Ciccio per tutti, classe millenovecentoquaranta, si ripromise per l'ennesima volta che quella sarebbe stata l'ultima funzione cui avrebbe partecipato prima di lasciare il posto a don Girolamo, il suo secondo, giovanotto allampanato che non attendeva altro che prendere il suo posto. Che lo prenda pure, pensò Don Ciccio mentre, un piede dopo l'altro, saliva una ripida scalinata di vecchie pietre, poi si renderà conto che non è affatto una passeggiata. E non si riferiva certo alla scalata di quel momento. La gente non immaginava nemmeno lontanamente la fatica che doveva portarsi sulle spalle un parroco di paese, spesso additato come un sempliciotto, col vizietto del goccio di vino e delle belle femmine che di tanto in tanto bussavano all'uscio della sacrestia, non certo in cerca di una confessione. Che faticaccia anche preparare il Venerdì Santo! Visionare il percorso, identico da secoli, benedirlo con incenso, preghiere ed uno stuolo di fanciulli chiamati controvoglia a fare da chierichetti, da rabbonire con una manciata di monete che sarebbero state di sicuro spese tra chewing gum e limonate. Per non parlare poi delle confessioni da fare, dei Penitenti da scegliere... Don Ciccio sentiva gravare su di sè la croce del genere umano. Aveva ascoltato ogni genere di peccati e di mancanze, tradimenti e malavita, innumerevoli volte aveva messo tra le mani di uomini, talvolta affranti, talvolta incuranti delle loro malefatte, il vestiario. Cappuccio e saio rossi come il sangue versato dal Cristo sofferente, il cordone con cui cingere la vita nero come la morte incombente. Era parroco da più di trent'anni, e per più di trenta volte, quindi, si era ritrovato a fare i conti con le macchie di uomini anche dall'apparente perbenismo. Ma nulla, nulla, l'aveva segnato e destato preoccupazioni come l'incontro di quell'anno. Una motivazione in più per appendere i paramenti sacrali al chiodo.

Notte tra il Mercoledì delle Ceneri ed il Giovedì Santo.
Don Ciccio era nella sacrestia. Sorseggiava un bicchiere di vino pastoso, il suo personale incoraggiamento per la notte che si prospettava. Aveva appena concluso la lavanda dei piedi ed ora, per almeno tre ore, avrebbe ascoltato le confessioni indicibili di uomini che, bene attenti a non incontrarsi fra di loro, bussavano all'uscio.
"Chi è?", chiedeva Don Ciccio, sempre con lo stesso tono. Apriva la porta. Stanco, ma austero. Non poteva permettersi cadute, era un'autorità. Quella notte, più che mai.
"Padre, ho peccato" era la risposta tradizionale del peccatore. Il parroco si spostava, lasciando entrare l'uomo, e si compiva il sacramento della confessione.
Quella notte aveva ascoltato di uomini violenti, iracondi sulle proprie mogli, di ubriaconi con l'alito rarefatto dall'alcol stantio, truffatori e ladri. Forse era la vecchiaia, o la cattiva predisposizione, ma quell'anno il compito gli pareva più gravoso del solito. Necessitava di un bicchierino in più.

Toc toc.
Don Ciccio ingollò l'ultimo sorso di vino, pulendosi velocemente la bocca. Lanciò un'occhiata all'orologio alla parete. Le tre. Di sicuro, quello sarebbe stato uno degli ultimi Penitenti della nottata. Avrebbe avuto tempo per qualche ora di sonno, prima delle preghiere mattutine, e magari per farsi fare una visita da Carmela, la tuttofare della parrocchia... una visita dal sapore decisamente terreno, ma necessario.
"Chi è?" disse, come di consueto, Don Ciccio. Tono stanco, ma austero.
Si avvicinò all'uscio, l'aprì.
"Padre, ho peccato."
Diversi pensieri attraversarono la mente del parroco, primo fra tutti la consapevolezza che quella situazione aveva un che di strano e di pericoloso. Ma, nonostante gli irrinunciabili vizietti terreni, Don Ciccio era un uomo di buon cuore e di orecchio fine. Un uomo di Dio, in fondo. Con in gola molte domande, si spostò dall'uscio e lasciò entrare una giovane donna di una bellezza così pura e disincantata da non suscitare pensieri bassi. La pelle scura aveva l'odore del mare. L'uomo la contemplò per qualche istante. I denti bianchi, dritti, grandi, il viso sottile smunto e quasi deformato da un qualche dolore dalle radici profonde.
"Hai... hai bisogno di una confessione, figliola?" la voce gli uscì sottile e quasi incerta, timorosa. Con un colpo di tosse cercò di darsi un tono. Stanco, ma austero.
"No, padre". La voce della fanciulla era roca, forse stremata dalle innumerevoli ore di pianto. "Mi chiamo Libera. Voglio essere una Penitente. Ho peccato d'amore."

*

L'odore pungente dell'incenso acquietava i sensi e svegliava la mente. Filtrava attraverso il cotone del cappuccio, insinuandosi nelle narici prima, nelle viscere poi.
I suoi occhi dardeggiavano tutt'intorno, scorgendo uno spettacolo cupo, quasi minaccioso. I Penitenti, dal capo coperto, erano genuflessi dinanzi all'altare, alcuni col capo chino, in preghiera, altri con lo sguardo perso nel vuoto. Ognuno immerso nel proprio dolore, nelle proprie malefatte. Per un istante, il suo sguardo incrociò un paio di occhi duri, dalle sopracciglia corrugate. Immediatamente abbassò i suoi, affondando le mani nelle maniche del drappo sanguigno. Le sue mani di donna.
Don Ciccio aveva protestato più e più volte, aveva provato a cacciarla fuori dalla sacrestia, ma nulla era servito.
"Sono secoli, secoli!" aveva sibilato, la voce soffocata, dopo aver ascoltato ciò che aveva da dire "Che i Penitenti sono tutti uomini. Puoi scontare il tuo peccato cantando per il Signore..."
"No", aveva ribattuto in tono fermo lei "Non sarebbe la stessa cosa. Non v'è una regola, padre, che vieti le donne tra i Penitenti. Nè vi sarebbe modo di scoprire la mia presenza tra di loro. Padre, sarò la Maddalena penitente."
Con un sorriso amaro, Libera ricordò Don Ciccio sedersi, detergersi la testa pelata dal sudore e versarsi una generosa quantità di vino dolce, ottenuto dall'uva zibibbo.
"Le piace il passito, padre? Posso fare in modo da fargliene avere una quantità considerevole. Ovviamente, da accettare come umile dono di una fedele."
Giocando un po' sporco, facendo leva sull'uomo fatto di terra e sudore e non sull'animo spirituale di Don Ciccio, ottenne il permesso di far parte dei Penitenti. Ebbe il suo saio rosso, il suo cappuccio dalle strette fessure, il cordone scuro come la morte.
Dei passi pesante, il respiro affannoso, annunciaono l'arrivo del parroco. La donna sentì una presenza sgattaiolare al suo fianco, per sistemarsi accanto al prete. La sua corsa le aveva fatto smuovere la veste.
Peppe, pensò Libera. Il ragazzino le lanciò un'occhiata intimorita, come se averle toccato involontariamente la veste l'avesse macchiato di peccato. Non poteva nè doveva riconoscerla. Scrollò la testa incappucciata, come a dire che non importava. Il ragazzino la guardò ancora impaurito per qualche istante, con i suoi grandi occhi color dell'ematite. Così simili a quelli di sua madre. Perdonami, Peppe. Rivolse il suo sguardo al parroco.
Don Ciccio fece scorrere gli occhi lungo la platea rossastra dei Penitenti. Fece scorrere lo sguardo per poi fermarlo su di lei. La donna sostenne lo sguardo del messo di Dio. Don Ciccio aprì la bocca una volta, come per dire qualcosa. Poi la richiuse. Deglutì, trovò il coraggio nelle viscere, e poi finalmente parlò.
"Siate, oggi e sempre, fratelli di Cristo. Nel dolore della Morte, così come nella gioia della Resurrezione."

*

Venerdì Santo, ore undici e trenta del mattino. Un Aprile particolarmente caldo, un tripudio di colori ed odori. Un ossimoro, vista la giornata di dolore. Il sole cocente bruciava la nuca dei Penitenti che, lentamente e faticosamente, si apprestavano a salire sul borgo antico di S.
Gradini alti, di pietra dura e viva, si succedevano quasi infiniti. I penitenti erano in fila, silenziosi. Soltanto i loro sospiri si levavano nell'aria, interrotti occasionalmente dai canti delle donne che si fermavano agli archi e ai portoni, qualora le persone lo chiedevano, per cantare delle ferite di Cristo, del dolore della Madre, dei pensieri della Maddalena. Don Ciccio guidava, un passo dopo l'altro, il nutrito drappello, con il piccolo Peppe che gli trotterellava intorno, addetto all'aspersione dell'incenso. Tutti godettero nell'infilarsi in un vicoletto stretto e fresco. Lì la pietra non diveniva rovente perchè il sole non vi giungeva, a tratti i muri erano umidi e vi era odore di muschio. Percorsero con lentezza quella specie di sentiero, osservati da chi abitava quei luoghi senza tempo. Silenzio. Non si era mai udito un silenzio più rumoroso. Rumoroso, perchè chi osservava si ergeva quasi a moralizzatore. Rumoroso, perchè i Penitenti avrebbero voluto urlare al mondo che, sebbene vi fossero loro materialmente sotto quei cappucci sanguigni, coi fianchi cinti dal cappio della morte, era l'intero genere umano a scontare la pena. Rumoroso, perchè se i pensieri di Don Ciccio avessero potuto parlare, avebbero fatto un fracasso non indifferente. Rumoroso, perchè se i piedi del piccolo Peppe avessero potuto lamentarsi, l'avrebbero fatto senza remore.

*

Agnese percorreva le stradine lentamente, il capo chino. Sin dalla fanciullezza, la sua voce era stata sempre al servizio del Signore. Innumerevoli volte aveva cantato i lamenti, prima con sua madre e le sue sorelle maggiori, poi da sola. Ma, prima di quell'anno, aveva cantato per fede, non per scontare una pena. Quell'anno, invece, avvertiva il peso della croce sulle spalle. Avvertiva di essere una peccatrice, marchiata dal fuoco invisibile della Tentazione. Ripensò a ciò che aveva vissuto. Strinse gli occhi, lacerata da un dolore intimo ed infuocato. Quante persone aveva portato alla sofferenza. Non sarebbe bastato una vita intera di calvari per scontare tutto quello. Con passo greve, pesante, stanco, si avvicinava sempre di più all'antica chiesetta, fatta di marroni rossastri. Lì avrebbe cantato alle dodici in punto.

*

Libera sentiva ogni singolo sasso puntuto scalfirle la pianta del piede, anche attraverso la suola dei sandali in cuoio. Abbassò lo sguardo, e vide che il dorso del piede sinistro era scalfito. Un rivolo di sangue colava. Niente di preoccupante. Ferite che una ragazza di campagna, cresciuta correndo nell'erba, aveva visto decine di volte. Ma anche se fosse stato grave, non vi avrebbe dato importanza. Dopotutto, era lì per una penitenza, non per una passeggiata piacevole sul bagnasciuga.
I Penitenti, Don Ciccio e Peppe sempre in testa, si inerpicarono su per il sentiero più ripido del percorso, quello che portava alla chiesetta di mattoni rossi, situata sul punto più alto del borgo e del paese. Libera ricordò quando, in tempi migliori, lì vi era andata per osservare il panorama. A quel tempo, le sembrò un paesaggio fiabesco. Ora, lo temeva.

*

Dolci rilievi trapunti di verde si alternavano a punte aspre ed erose dai segni del tempo. Qua e là, qualche piccola e quasi insignificante macchia boschiva, di tipo mediterraneo. Arbusti, ficus ed ulivi era la vegetazione consueta in quelle zone. Il paese si incastrava così in quell'habitat, e pareva che non vi sarebbe potuto essere altro al di fuori di quello. In lontananza, in un giorno senza nuvole e nitido come lo era quel Venerdì Santo, si poteva scorgere l'azzurro del mare, la zona costiera, le isolette che, a quella distanza, sembravano fatte di ombra.
Don Ciccio, con un gemito, arrivò in cima alla ripida salita. Lanciò un'occhiata alla chiesetta di mattoni rossi, piccola e stabile sul suo sperone di roccia. Poi, rivolse il suo sguardo all'orizzonte. I suoi occhi vagarono dalle colline, agli alberi, al mare. A volte il buon Dio si prende giuoco di noi, pensò amaramente, asciugandosi la pelata con un fazzoletto, Non si può pensare al dolore del genere umano con un giorno di sole così bello.

*


"Ecco la bella croce,
Ecco il sacro legno
dove Gesù morì,
dove Gesù morì."

Agnese ascoltò la voce delle sue sorelle di dolore, pensando che presto sarebbe arrivato il suo turno. Il capo chino, il rosario tra le mani, fiancheggiò i Penitenti, risalendo la china della collina verso la chiesetta. Il sole rovente le bruciava la nuca, ma di tanto in tanto una lievissima brezza dava sollievo. Alzò il capo, gli occhi accecati dalla luce primaverile. Erano quasi giunti in cima, qualche Penitente era già faticosamente giunto, seguendo Don Ciccio, senza lasciarsi distrarre. Agnese intravide il figlioletto Peppe, attaccato alla veste del parroco, osservare il panorama, a bocca aperta. Con un sorriso amaro, ricordò delle innumerevoli volte in cui aveva sentito suo marito promettere al figlio infinite scampagnate in quel posto.
Carezzò a lungo suo figlio con lo sguardo, così tanto che notò un Penitente a poca distanza avere lo sguardo insistente sul ragazzino. D'un tratto, un paio di grandi occhi nocciola la trapassarono da parte a parte.

*

Libera sentiva i piedi a pezzi. La pelle si era ulteriormente lacerata, il sangue si mischiava col terreno, bruciando a più non posso. Rivolse lo sguardo in avanti, cercando distrazione dal dolore. Avvertiva, di tanto in tanto, una lieve frescura che si abbatteva sulla stoffa rossa. Vide Peppe, gli occhi incantati dal panorama. Sorrise, sotto il cappuccio. Quel ragazzino le era sempre piaciuto. Curioso, serio, un sorriso grande come il mondo. Un sorriso fatto di occhi, proprio come quello della madre. Osservò la sua nuca sottile, le sue spalle piccole sotto quella veste cascante, troppo grande per un bambino della sua età. Perdonami, Peppe, pensò ancora una volta. Perdonami.
Il richiamo di quegli occhi color dell'ematite l'avrebbe sentito ovunque. Ovunque.

*
Agnese e Libera si osservarono per una manciata di istanti. Non più di un battito diviso in due tempi, uno di sistole ed uno di diastole, non più di uno o due ticchettii di orologio, non più di un frullio di ali di un pettirosso, il sospiro tranquillo di un anziano dormiente. Ma quel lasso di tempo fu sufficiente ad entrambe per esplorare i lati e le emozioni più recondite. Libera oltrepassò la quarta parete instaurata da secoli tra i Penitenti e il pubblico, tra il peccato che poteva scrutare il mondo intorno a sè ma non poteva essere liberamente osservato. Poter godere liberamente della visione di Agnese le sembrò come abbeverarsi di acqua fresca, pura e cristallina.
Agnese sentì come se una frusta le avesse percosso interamente il corpo. Avebbe riconosciuto ovunque il peso e l'intensità di quelle grosse nocciole selvatiche. Osservò a lungo Libera, il bel corpo nascosto sotto il drappo sanguigno. Riusciva quasi a vedere la sua figura sottile e slanciata, forte e flessuosa. Si diede della stupida per non averla riconosciuta subito.
Libera.
Agnese.

*

"Ll'acqua fa mal e 'o vvin fa cantà!"
Accadde al crepuscolo di un giorno settembrino, uno tra i primi, uno di quelli dove c'è ancora tanto sole, ma all'imbrunire prevale il fresco. Un lieve vento faceva muovere le foglie. Quel giorno, nei ricordi, avrebbe sempre avuto l'odore e il sapore dello zucchero. I moscerini ronzavano intorno, molesti. Era un giorno di vendemmia, un giorno di gioia. 'O vvin fa cantà!, strillava continuamente un uomo, battendo i tamburi mentre tutti intorno a lui battevano mani, nacchere e qualsiasi cosa provocasse un rumore gioioso.
Agnese era lì con suo marito. I vinaioli erano suoi amici, vieni, ti piacerà l'atmosfera. Non puoi sempre star china sui libri!, e lei l'aveva seguito. Era di indole dolce, Agnese. Così dolce da aver seguito sempre i consigli della sua famiglia. Lo studio, i viaggi. Sempre. Ora, ad una trentina di anni abbondanti, si ritrovava con un buon lavoro di insegnante, un uomo al suo fianco che l'amava e la prendeva spesso in spalla, facendola roteare al di sopra di tutti (Guardate com'è bella, la mia Agnese! Com'è bella, la mia professorina!), una bella casa, un bambino dolcissimo che amava stare coi nonni. Tutto perfetto, nulla di perfettibile.
La sua attenzione fu attirata da un gruppetto di persone che ballava e cantava più forte degli altri, intorno ad un grosso tino, dove una donna schiacciava l'uva quasi ballando. Agnese, quasi involontariamente, lasciò andare la mano del marito, che in quel momento era impegnato in una accesa conversazione mangereccia, e si avvicinò a quel tributo a Bacco. Più si avvicinava, più Agnese sentiva il cuore palpitarle, quasi fino a scoppiarle nel petto, osservando la donna.
Non era una donna, era poco più che una ragazza, la pelle scura e i capelli color dell'ebano, gambe lunghe, forti ma sottili, libere da qualsiasi costrizione, coperte solo dal tessuto di una gonna lunga, tradizionale contadina, che lei aveva tirato fin sopra le ginocchia. Era bella, ridente scuoteva la testa, i suoi capelli danzavano insieme a lei. Quel sole settembrino filtrava attraverso i riccioli d'ebano, donandovi riflessi quasi ramati. All'improvviso, quasi come rispondendo ad un richiamo divino, la ragazza rivolse i suoi occhi su Agnese. Agnese si sentì avvampare e, in quel momento, sentì riaffiorare tutto quello che la sua famiglia aveva sempre cercato di soffocare, sin da quel bacio tenero scambiato con una compagna delle medie, subito scoperto da sua madre...
Libera era in estasi. L'odore del mosto le invadeva le narici, ubriacandola quasi, il battito delle mani, dei tamburi, dei piedi e delle nacchere seguiva quello del suo cuore, del sangue nelle vene. La terra era il suo elemento. Roteò la testa, inebriata, socchiudendo gli occhi, mettendo a fuoco una figura poco distante dal gruppo. Una donna dall'aspetto gentile. Aveva un sorriso sul volto, ma soprattutto, sorrideva con gli occhi.

"Ho visto che prima ci osservavi". La ragazza si asciugò le mani con uno strofinaccio bianco, poi si asciugò le gambe. Agnese non potè fare a meno di seguire i suoi movimenti.
"Sì. Eri particolarmente presa, quasi impossibile non notarti."
Libera notò i suoi occhi scuri, così scuri da sembrar densi... duri, come una pietra. Come l'ematite. "Io... Libera". Le porse la mano, pentendosene quasi all'istante dinanzi ad una apparente titubanza dell'altra. Era tutta inzaccherata di uva. Invece, lei la prese e la strinse. Una stretta gentile.
"Un nome che ti si addice. Io sono Agnese."
Gentile anche di nome.
Si guardarono ancora per qualche istante. Una tensione palpabile si avvertiva tra di loro.

Quella notte, quando suo marito si avvicinò al suo corpo per coglierne i frutti, Agnese avvertì un diffuso senso di inadeguatezza e fastidio. La sua barba pungente sulla pelle la irrigidiva, la sua intimità accolse in modo poco gentile il suo sesso. Agnese si costrinse ad avere gli occhi serrati e a simulare il piacere. Anche le ruvide carezze che l'uomo riservò alle sue guance, dopo quell'amplesso così meccanico, non fecero altro che aumentare la sensazione che quello non era mai stato il suo posto. La sua mente era sempre e costantemente rivolta a quella conversazione.

"Cosa sei tu?" Libera faceva roteare un bicchiere di vino novello tra le mani sottili, dalle dita lunghe. Lo porse ad Agnese, che ne bevve un piccolo sorso. Intorno a loro, la festa impazzava. Sarebbe continuata così per tutta la notte, fino all'alba.
"Insegno" fu la risposta semplice e concisa di Agnese. Libera sorrise.
"Non ho chiesto 'cosa fai', ho chiesto... cosa sei." Libera riprese il bicchiere dalle mani di Agnese ed ingollò un sorso lungo. Non era un vino dei migliori e questo le dispiaceva. Per quella donna, dal sorriso ampio che si estendeva dagli occhi fino alle labbra, desiderava soltanto le cose migliori.
"Un fiore di tarassaco" sussurrò piano Agnese.
Libera inarcò un sopracciglio. "Che nasce all'alba e muore al tramonto?"
L'altra alzò lentamente lo sguardo verso di lei. "Non tutti hanno la fortuna di chiamarsi Libera, quindi si va alla ricerca di qualcosa che ci rappresenti."
Silenzio. "E tu... cosa sei?"
Sorrise, con i suoi occhi grandi come nocciole. "Una giramondo che usa belle parole."

*
Ottobre, incalzante novembre.
Giornate dal cielo color ghiaccio, freddo pungente. Le foglie cadevano ancora al suolo con rumore sinistro, scricchiolavano come ossa rotte. Non si poteva far altro che stringersi negli impermeabili, guarnendo ombrelli come se fossero spade, ed avventurarsi tra le strade quasi deserte, desiderando il caldo abbraccio di una madre, della persona amata, ma anche soltanto lo sguardo colmo di gratitudine di un senzatetto cui si è donata una moneta.
Agnese affondava le mani nella pastafrolla, donandovi calore e passione. Per la gioia di suo marito e del piccolo Peppe, stava preparando la crostata, un dolce primaverile, sinonimo di genuinità, di sole, di profumo di fiori, ma ad Agnese piaceva prepararla anche coi climi meno adatti. Una crostata riempiva sempre il cuore di dolcezza, e a lei piaceva sempre trovare il tempo per prepararne una. Soprattutto con la marmellata di albicocche. Ogni volta che ne apriva un vasetto, socchiudeva gli occhi, ripensando alle corse tra l'erba a piedi nudi, ai richiami della madre, ai pranzi domenicali, alle dita intinte in quella polpa zuccherina senza paura delle conseguenze, dei mal di pancia, delle ginocchia sbucciate, dei dolori dell'amore. Ogni volta, si ritrovava ad affondarvi le dita, le lacrime appese alle ciglia.
Dlin dlon.
"Peppe, va' a vedere chi è alla porta" disse Agnese, stendendo vigorosamente la pastafrolla. Sentì lo scalpiccio del bambino attraverso il salotto.
"E tu chi sei?" la vocina del bambino arrivò distinta fino in cucina.
"Una persona cui piacciono molto i gessetti colorati. Cosa stavi disegnando?" il cuore di Agnese saltò molti battiti. La sua voce. La sua voce. Non era possibile, non...
"Libera".
Libera alzò lo sguardo verso la voce che aveva mormorato quasi impercettibilmente il suo nome. Strinse forte il sacchetto di carta che aveva tra le mani, timorosa di farlo cadere sul pavimento, tanto forte le batteva il cuore. Agnese era lì, a pochi passi da lei. Desiderio taciuto di quei mesi, divenuto insistente con la sua sola assenza, insopportabile con l'avvicendarsi della stagione invernale. Quella mistica unione tra sacro e profano era davanti a lei. Lanciò ancora un'occhiata al bambino, che la osservava. Poi guardò di nuovo Agnese. Gli stessi, immensi occhi color ematite. Suo figlio. Il cuore le si gonfiò ancora di più tra le costole. Materna e lussuriosa allo stesso tempo. Notò che sui pantaloni del tailleur vi erano delle macchie di farina maltolte.
"Agnese" finalmente, la sua lingua sembrò sciogliersi. "Perdonami l'improvvisata, ma ho pensato di portarti del vino..."
"No, non preoccuparti" si affrettò a dire Agnese. "Peppe, lei è Libera, è una mia amica. Torna a giocare coi gessetti."
"Dopo passo a vedere il tuo capolavoro" promise Libera. Il bambino sorrise e filò via. Lo stesso, identico sorriso con gli occhi.
Le due donne rimasero sole nell'ingresso, a pochi passi di distanza, per qualche istante in silenzio. Il tempo era scandito soltanto dal fluire del sangue.
"Stavo preparando una crostata", disse timidamente Agnese, torcendosi le mani. Libera le si avvicinò e abbozzò un sorriso, facendole mancare il respiro. Un sorriso sbilenco che mostrava denti bianchi e forti.
"Si vede. Hai una macchia di marmellata sulla guancia."

La cucina si colorò di primavera. Agnese continuò a preparare la crostata, con rinnovato vigore e calore, mentre Libera si guardava intorno, familiarizzando con l'ambiente, scegliendo i calici adatti al vino che aveva portato.
"Visto che il vino della scorsa volta non era un granchè, mi sono permessa di chiedere a mio padre dove abitaste tu e tuo marito, per farvi assaggiare qualcosa di migliore." Libera stappò una bottiglia con fare esperto e versò una quantità generosa di nettare rossastro in entrambi i calici. Ne porse uno ad Agnese, serbò l'altro per sè. "Il miglior Lacryma Christi delle cantine di famiglia.”
“Bacco amò questi monti più dei nativi colli di Nisa”, citò a memoria Agnese.
Libera sorrise. Un altro di quegli irresistibili sorrisi sbilenchi. “Non mi aspettavo altro da una donna di lettere.” Sollevò il calice, inclinandolo fino a sfiorare quello di Agnese. “Con i più calorosi saluti del mio buon padre.” Ebbe una pausa, in cui i suoi grandi occhi nocciola si infuocarono, perdendosi in quelli scuri di Agnese.
“Ai tuoi meravigliosi occhi ematite.”

*

Fu un inverno pieno di visite, vini e brindisi, marmellate e sguardi. Libera (“di nome e di fatto”, come spesso le piaceva ripetere, canzonandosi da sola) per la prima volta dopo tanti anni, non migrò come una rondine verso un Sud più caldo, con grande stupore della sua famiglia. Le si addiceva male il clima invernale, e lei ne soffriva. Con i primi freddi, Libera viaggiava là dove il sole poteva baciarle il volto ed infuocarle gli occhi, abbrustolirle la pelle. E scriveva. Scriveva. Attraverso i suoi occhi, i lettori scoprivano un mondo nuovo, talvolta lontano nella geografia ma vicino al cuore. Le pampas argentine. Le giornate infinite dell'Andalusia. Il caldo soffocante africano. A piedi con un bisaccia in spalla, in bicicletta oppure in moto come il più moderno degli Ernesto Guevara, era sempre stata una giramondo che usa belle parole.
Ma non quell'inverno.

*
In quel settembre di vendemmia, un vignaiolo batteva forte le mani sul tamburo, le guance rubizze, l'alito intriso di vino novello. Batteva il tamburo e strillava sempre lo stesso, antico proverbio.
“L'ammor è comm 'o piccirill ca nun sap cuntà!”

Agnese lo ricordava bene e, ad un certo punto, non potè sottrarsi alla legge immutabile e non scritta. Vox populi, vox Dei.

*

'O piccirill ca nun sap cuntà si presentò, monello e quasi maligno come un Cupido, in un gennaio insolitamente mite. 'O piccirill travolse Libera ed Agnese in un pomeriggio domenicale, durante un infinito pranzo domenicale. Uno di quelli di campagna, dai soliti amici vignaioli, il primo dell'anno sotto il pergolato, innaffiato di vino d'ogni sorta, di ragù, di racconti e di canti. Agnese, affidato Peppe a suo marito, andò nell'ampia sala da bagno della cascina a rinfrescarsi il volto congestionato dal vino e dal cibo troppo saporito. E dagli sguardi di Libera. Libera, che in quei mesi le aveva fatto riscoprire il suo essere donna, le aveva risvegliato i sensi e l'intelligenza. La curiosità. Libera, dal corpo flessuoso e giovane, il brillio del sorriso di chi vive con pienezza quel decennio che va dai venti ai trenta. Libera. Di nome e di fatto.
Mentre attraversava il soggiorno, si sentì afferrare il polso da una mano calda, dalle dita sottili e lunghe. Ebbe solo il tempo di individuare, nella penombra della casa, i grandi occhi da cerbiatto di Libera. Agnese ebbe una paura irrazionale, infondata. Sentiva le labbra tremare. Cercò di concentrarsi su qualsiasi cosa che non fosse lei. Un angolo del suo cervello registrò un curioso profumo di fiori fuori stagione. Ma non riusciva a capire da dove venisse.
“Lasciati andare.”
Agnese non ebbe tempo, né desiderio di sottrarsi ad un delicato bacio colmo di disperazione, 'o piccirill si insinuò tra loro, tenendole avvinte con catene.
Mentre fuori si festeggiava un principio di primavera anzitempo, nella penombra della casa si consumava un antico fuoco fatto di sospiri e parole taciute per troppo tempo. Agnese assaporò per la prima volta un piacere troppo a lungo negato, un volto liscio ad accarezzarle la pelle con le labbra, un corpo così simile al suo eppure così nuovo al tatto. Libera guidò le mani della novella amante lungo il suo corpo, permettendole di avventurarsi senza paura alcuna. Giunse al piacere con un mugolio quasi infantile, accasciandosi sui seni dell'altra. Agnese le carezzava piano i riccioli d'ebano. Fuori, la festa domenicale impazzava. Agnese inspirò a fondo quell'odore diffuso di fiori. Poi comprese. Odore di primule. Anch'esse fuori stagione. Tenaci.

*

Agnese contrasse il volto in una smorfia di dolore, distogliendo a forza lo sguardo dal Penitente che ormai aveva un volto ed un nome. Libera. Libera. Tante, troppe domande le si affollavano nella mente. Come aveva fatto ad indossare quel drappo e quel cappuccio? Don Ciccio sapeva. Sapeva. Affrettò il passo fino a raggiungere il parroco.
“Don Ciccio...”
L'uomo si voltò e la guardò. Un'espressione indecifrabile sul volto. Agnese aprì la bocca, ma la richiuse subito. Una tacita conversazione scorse tra di loro, invisibile ma forte. Don Ciccio sapeva ed aveva autorizzato. Il parroco abbassò lo sguardo, dando una pacca sulla spalla al piccolo Peppe. Probabilmente aveva capito perchè quel ragazzino era rimasto improvvisamente senza padre. Perchè quell'uomo, tanto sorridente, buontempone, di colpo era andato via dal paese.

*

Libera non distolse per un solo istante lo sguardo da Agnese. Sembrava un cane randagio, si guardava intorno, in cerca di una risposta. Ma le risposte c'erano già tutte, posto che vi fosse qualche domanda da fare. Lei era lì. Era una Penitente. Osservò la donna cercare Don Ciccio, scrutò a lungo lo sguardo che si lanciarono. Il muto patto tra i tre si era compiuto, ma a breve non sarebbe più stato necessario. Agnese le rivolse di nuovo gli occhi. Libera lesse disperazione e pena in quegli occhi color ematite. Col groppo in gola, vide Agnese portarsi le mani al grembo, ed ebbe un tuffo al cuore. Non potrò più averne. Era questo il messaggio che voleva lanciarle. La furia cieca di quel marito tradito aveva portato quel risultato. Il loro amore fu scoperto alcune settimane dopo e pagarono caro prezzo. Una lunga serie di immagini, come sediziosa tortura, trapassò la memoria di Libera. L'uomo che entrava in quella che era stata la sua camera, il suo talamo nuziale, e si avventava su di loro, brandendo una spranga. Lei che veniva sbattuta al muro, il sapore del sangue in bocca, incapace di articolare anche solo un passo. La vista annebbiata, ricordò le urla di Agnese, il suo ventre battuto dalla spranga, i pianti e le implorazioni.
Tutto finì presto, lasciando spazio ai gemiti di dolore. Libera non riusciva a muoversi, sentiva allargarsi sotto la sua testa una pozza di sangue, si sentiva sempre più debole, la vista annebbiata. Agnese, Agnese, risuonava nella sua testa. Sentì dei passi avvicinarsi, fermarsi accanto a lei. Un solo, freddo sputo le colpì il volto e l'animo.

*
Don.
Il primo rintocco sferzò l'aria come se fosse una frusta.
Don.
Dodici, come gli apostoli fratelli di Cristo.
Don Don Don.
I cantori si raggrupparono tra loro, a ranghi serrati.
Don Don Don.
I Penitenti si dispersero, invece. Ognuno nella propria manifestazione di dolore.
Don Don Don.
Qualcuno crollò al suolo, mormorando quasi impercettibilmente richieste di perdono. Altri si battevano il petto, lamentandosi. Qualcuno si tolse i sandali e procedette verso la chiesetta a piedi nudi, tra le pietre e gli sterpi.
Don.


Dodici rintocchi ruppero l'aere silenzioso di S. Il mondo sembrò fermarsi. Tutti trattennero il respiro. La brezza lievissima e il canto degli uccelli lasciavano presagire tutto, tranne la morte del Cristo.
Don Ciccio, seguito a ruota da Peppe, rivolse i suoi occhi verso Agnese, così come la totalità dei presenti. Penitenti, cantori, fedeli, Libera.

*

“Torna,
che ti perdono,
bacia la terra
dove Gesù Morì.
Gesù morì.
I duri sassi spezzansi,
Si squarcia il sacro velo.”

Un panno rosso venne gettato a terra.

*

I fedeli tirarono un sospiro agghiacciato come se fossero un sol uomo. Un Penitente aveva gettato il cappuccio, rivelando il volto di una giovane donna di colorito scuro, riccioli castani le incorniciavano il volto. Una brezza lieve, frammista alla luce solare, lasciava intravedere le sue guance rigrate di lacrime.
“Peccato!” urlò qualcuno, tra la folla. Uno tra i più lesti a riprendersi. “Peccato mortale!”
Tutti gli altri, restarono in silenzio. Troppo attoniti da quella rottura con la tradizione che aveva del demoniaco.

*

I Penitenti osservavano la scena. A loro era impedito intervenire, qualsiasi cosa capitasse. Loro erano il peccato. Qualcuno, tra loro, si scrutò nervoso, salvo poi ritornare a fissare la donna blasfema che si era insinuata tra di loro, oppure a rimuginare sui propri peccati.

*

Don Ciccio divenne una statua di sale da far invidia a quelle delle bibliche Sodoma e Gomorra. Non solo un Penitente si era tolto il cappuccio, ma era una donna. Una donna! Mai, in secoli e secoli di tradizione, si era mai avuta notizia di un gesto simile... mai... Prossimo ad un infarto, volse il suo sguardo ad Agnese, disperato. Come se lei avesse potuto far qualcosa. Ti prego, Agnese, in nome della tua bellezza, fa' qualcosa.

*

Agnese intonò la sua strofa con la consueta bravura di sempre. La voce vibrante, tonante al di sopra di tutto e di tutti, sembrava squarciare l'aria. Con la coda dell'occhio, raggelata, osservò Libera strapparsi via il cappuccio, restare a capo nudo. Il peccato che, senza vergogna alcuna, si offre al giogo di chi si crede assolto. I loro occhi si incrociarono ancora una volta. Agnese vide le lacrime rotolare lungo le sue guance, il collo sottile teso, le vene rigonfie. In modo quasi impercettibile, scosse la testa. No, Libera. No.

*

Libera sentì il vuoto intorno a sé. Quel racconto corale, quel dolore del genere umano la stava estromettendo. Si era rivelata per ciò che era: una donna, una peccatrice. Incurante del vuoto intorno a lei, incatenò ancor più lo sguardo a quello di Agnese. Una muta richiesta. Si può, Agnese... si può? Ma quell'impercettibile gesto di diniego, ruppe qualsiasi speranza. Un minimo accenno di sorriso sbilenco le colorò le labbra. Doveva andare così. Doveva.

*

Con un guizzo repentino, Libera sgusciò tra la folla, si diresse verso l'orizzonte, saltò il muretto.
Come a voler raggiungere il mare. Come una goccia rossastra di Lacryma Christi che si tuffava in un calice.

“NO!”

*

Peppe ebbe la stessa sensazione che si ha quando si sogna qualcosa di brutto e ci si accorge che in realtà è solo un sogno. Aprì e chiuse diverse volte gli occhi, ma era tutto vero. C'era Libera sotto quel cappuccio, c'era l'amica di mamma. La donna cui piacevano i gessetti. I suoi occhi scattarono immediatamente verso quelli materni. Mosse un passo, come se una sua entrata in scena potesse sovvertire le sorti della vicenda. Ma accadde tutto più in fretta. Libera si lanciò oltre il muretto, e Peppe fu davvero sorpreso di vederla cadere giù, giù verso la valle, giù verso il mare. Di non vederla spiccare il volo.
A Peppe, il fruscio della veste rossastra ricordò tremendamente il frullio di ali di un pettirosso.























Su Nunzia Clemente
Navigante per mare procellosi, approdata quasi per caso nel caos ordinato dell'Orientale. Nata tra monti deturpati, pendolare d'obbligo e per passione, ama donare fiori e libri, questi ultimi scovati in qualche scantinato polveroso. Il suo sogno nel cassetto (ancor più segreto della scrittura), è lavorare in una stazione ferroviaria di campagna, possedere una cascina e un pergolato in fiore.

Sulla rubrica Squarci
Se la scrittura si serve di aghi e coltelli, se punge e lacera, se ogni pagina apre un varco in mezzo all'ovvio e al non detto, se la ragione ha bisogno di attimi di illucidità, se ogni testo si apre su un paesaggio interiore, se è un buco della serratura da cui spiare il mondo, se duole, se è una lama nella carne, se è una trama interrotta in un punto a caso, se la narrazione si spezza come un canto, se è una dissonanza, se semplicemente siete curiosi di sapere chi siamo. Estratti, ferite, fenditure di scrittura, un modo per sentire i nostri silenzi e leggere tra le righe di ciò che abbiamo in cantiere.