Squarci | giovedì 11 ottobre 2012

Angelo Tavolaro

Un filosofo con... le mani in pasta


Lo straccio orami logoro continua a lisciare la superficie di acciaio. Spinge le molliche dei croissant per terra, lambisce i portatovaglioli, attrae ogni minuscolo granello di zucchero. Macchie di ogni sorta scompaiono sotto il suo rapido, duro, passare, lasciando all’occhio la sola vista dei graffi. Quelli, ormai è impossibile toglierli. Lo straccio continua da mesi il suo lavoro, a forza sospinto dalla mano, anch’essa logora, come lo straccio. Né la mano né i graffi godranno della stessa fortuna dello straccio. Non riposeranno sul fondo di un secchio: la mano continuerà a stringere un nuovo straccio; i graffi riceveranno ancora, e per lungo tempo, macchie, zucchero, cucchiaini, molliche e per loro l’unica consolazione sarà far posto ad altri, nuovi graffi.
Le tazze sono in ordine, la vetrina ben pulita. I liquori, ordinati secondo la tipologia, comunicano grazie ai riflessi dei raggi del primo sole, rimbalzando da un’etichetta all’altra, secondo un ping-pong che si ripete ogni mattina, alla stessa ora. Amari e amarissimi a portata di mano, eccezion fatta per l’Amaro Lucano che va per la maggiore: questo si tiene nel frigorifero sottostante al bancone. I vermouth possono giacere lontani, le loro etichette coprirsi di polvere: in un paese di manovali l’occhio non sempre vuole la sua parte, anzi, spesso si chiude per non guardare. Lo stesso valga per i ruhm, i whiskey e altre raffinatezze del genere. Dopo una giornata sul cantiere o in mezzo ai campi, niente è più rinfrescante della birra ghiacciata, rigorosamente Peroni, da servire senza bicchiere; altre volte, invece, il Borsci, imbevibile infuocato petrolio, è richiesto in luogo del fresco nettare di malto: “non sono mica una femmina, io”, potrebbe rispondere il cliente all’inavvertito gesto del barista di porgergli un bicchiere. E di birra sono pieni la maggior parte dei frigoriferi. Tutti gli altri si dividono il lavoro per tenere alla giusta temperatura bevande da femmine, appunto, o per bambini: the freddo, aperitivi analcolici, succhi di frutta.
Cornetti caldi, ciambelle e sfoglie ripiene di crema, occupano il primo piano del palazzo di vetro. La rosticceria, o il salato, il piano meno nobile. Tra poco i loro ruoli si invertiranno, come sempre si invertono i ruoli durante la giornata: ciò che è dolce al mattino diventa, pian piano, salato. Più spesso, diventa amaro. Sono le sette, sono in piedi da due ore, da una dietro il bancone, l’ora prima, sempre in piedi, in cucina a sfornare delizie. Sono più di cinquanta i caffè: prima chicchi, poi polvere, poi cialda stretta nel braccio della macchina, poi acqua nera. Sono già stanco e non devo pensarci: non si andrà a letto prima delle due, di notte ovviamente. Sono giusto trenta giorni filati, oggi, che vado avanti così.
Il barista è dio. Anzi, per non regalare troppo agli eretici e non togliere altrettanto ai fedeli, sarebbe meglio dire, che il barista è come dio. Sarà perché a quest’ora del mattino, con le ossa a pezzi, i muscoli ridotti a batuffoli di ovatta, testa pesante e gambe e braccia ormai allo stremo, non riesco a vedere altro dio racchiuso in questi novanta metri quadri. Ieri sera la festa è finita tardi. Loro ballavano, io battevo le mani sulla pasta per darle una forma che si approssimasse al cerchio. Le feste di paese di antica origine, vissute nel presente, mi restituiscono solo tristezza e repulsione. La festa era l’occasione per fermarsi, per vestirsi di panni nuovi e puliti, di indumenti che si usavano una volta l’anno. Il signorotto restava signorotto, il povero cristo poteva diventare signorotto per una sera. Tutte queste cenerentole del paese potevano lasciare i campi, per un giorno, ricoprire la polvere e la terra di abiti puliti e fermarsi ad ascoltare la banda per tutto il giorno, avvolti in un inusuale senso di riposo, prima che alle cinque del mattino seguente scoccasse di nuovo la terribile mezzanotte. Altri portavano il santo in processione, altri ancora coglievano l’occasione per scambiare due parole, finalmente con amici, non più con semplici compagni di lavoro. Un bicchiere in compagnia, in rispetto all’antico rito sociale del banchetto comune. Le donne impegnate nelle preghiere, si affaccendavano nelle ventiquattrore precedenti a preparare manicaretti di ogni sorta ma soprattutto preparavano il proprio spirito ad accettar le inevitabili critiche dei mariti: il sugo è troppo denso, il sugo è poco denso; la carne è troppo al sangue, la carne è poco al sangue; il sugo è troppo sugo, la carne è troppo carne. Ho detto: inevitabili critiche. Inevitabili per chi quelle critiche le pronunciava, poiché nella possibilità della critica, gratuita e senza replica, vive il senso di un rapporto profondo, a metà tra frustrazione e senso di onnipotenza. “Continuerò a zappare i campi per tutta la vita, vedrò forse i miei figli andare via, e continuerò a vedere il medico, il farmacista e il notaio, guadagnare dieci volte più di me e dare lavoro ai propri figli senza poter cambiare minimamente le cose; però a casa, a casa mia, e il giorno della festa, per giunta, sono il sovrano, l’unico Re Sole che possa irradiare la sala da pranzo. Ho potere di vita e di morte sul sugo e sulla carne”. Inevitabili, però, le critiche lo sono anche per chi le riceve: un’intera generazione, una folla di donne, che per tutta la vita non ha fatto altro che ricevere queste critiche tanto da stupirsi e, quasi, inquietarsi, quando queste non le riceveva. Dopo anni, si palesa il matriarcato sempre strisciante: “mia madre la pasta la faceva meglio”\ “Sì? Vai a mangiare da tua madre”, e in questa risposta c’è tutta la fiera affermazione della propria importanza. Tradotto, significa: “povero ingenuo, ormai non c’è madre che possa sostituirmi”, e un ghigno, impercettibile, accompagna le rughe che solcano il volto.
La festa era il luogo dello spirito: quello delle donne impegnato nelle preghiere, quello dei bambini, impegnato nei giochi lontani dalla scuola, quello degli uomini, che si ritrovavano uomini e non più macchine agricole. Finalmente il circolo lavora-mangia-lavora-dormi si dischiudeva per diventare non una retta (i contadini hanno sempre vissuto, seppur senza esserne consapevoli, il tempo circolare ben prima che Nietzsche lo recuperasse dalla visione greca del mondo) ma un semplice, indecifrabile punto: mangia-riposa. Un sogno. Un incubo è ciò che resta oggi. Bancarelle di cinesi, turchi, pakistani, magrebini, affollano le strade per offrire ai nuovi festaioli, che per inciso fanno festa tutti i giorni, le cose più impensabili; offrono alle donne qualsiasi tipo di prodotto che loro comprano; e le donne porgono ai mariti l’imperdibile opportunità di sfilare il portafogli dalla sacca e mostrare a tutti che, finalmente, tutti possiamo comprare tutto. “Mio nonno, mio padre, campavano a stento? Beh, le cose sono cambiate: posso comprare tutte le borse che voglio e quintali di noccioline e zucchero filato. E posso farlo anche nei giorni usuali, si badi bene, non solo durante la festa. Sono orgoglioso di mio figlio, che spende fior di quattrini nelle sale giochi e inizia a fumare sigarette a quattordici anni. Le cinque lire giornaliere che mi dava papà per prendere l’autobus, io le conservavo per uscire con gli amici il fine settimana, andando a piedi fino a scuola, per risparmiare, appunto. Io e mio padre eravamo dei falliti”. Il vestito della festa ormai non esiste: questa definizione, non esiste più. La festa non è più festa, perché ormai è festa tutti i giorni. Non c’è più il signorotto: i figli del medico, del farmacista e del notaio, chiaro, hanno macchine e case di lusso; ma il figlio del contadino non ne parla più con la stessa rabbia del padre. La sua macchina è meno costosa, ma quantomeno non deve cavalcare più un mulo. Eppure la sua frustrazione supera di molto quella del padre. Alla festa, come a questa sciagurata generazione, è accaduta la cosa peggiore che possa accadere ad un discepolo: ereditare tutti i difetti, e nessun pregio, dal maestro.
Loro ballavano, io continuavo a disporre ingredienti sul disco con una precisione tanto maniacale da mostrare che la perfezione è solo nel caos. E loro continuavano a ballare anche quando continuavo a infilare e sfilare gli stessi dischi dallo stesso forno nello stesso modo. Il lavoro nobilita l’uomo, dicono. Beh, mi sentirei nobilitato anch’io se spezzassi questa pala su un ginocchio, lanciassi la divisa in un fuoco ardente e uscissi a ballare. Mi chiamano pizzaiolo. Se mi capita di andare in bagno e guardarmi allo specchio, non riesco a vedere nient’altro che un infermiere con la faccia sporca di cipria. La verità è che il lavoro logora l’uomo, ne logora testa, membra e fibre; sevizia la volontà e scarica l’intelletto. Almeno questo lavoro, portato avanti in questo modo. È mezzanotte e continuano a ballare, quando io, ripuliti gli ultimi contenitori dai rimasugli di pasta, e salutate con rabbia le novanta pizze infornate nelle ultime due ore, pulisco il forno e inizio a inserire le teglie di cornetti da presentare ai ballerini. Non uno dei loro piedi potrebbe seguire il ritmo dei miei pensieri, né, sovrapponendo i cerchi che disegnano danzando, si potrebbe edificare un pozzo alto quanto l’abisso della mia anima. Eppure loro ballano e io nutro, con le mie mani, la loro vita insufficiente. Tra un’ora sarà finita e resterò solo con il secchio e la mazza. Qualche rapida passata e il pavimento brillerà, anche grazie all’ausilio di un po’ d’aceto. Il pavimento va sfregato sempre in senso orizzontale rispetto alla luce, altrimenti si vedranno i segni dello straccio e le mattonelle lucide sembreranno macchiate. In realtà, me ne fotto delle macchie, ma se il padrone avrà qualcosa da ridire, mi toccherà ricominciare e a quest’ora non ne sarei poi così felice. Quando sarò grande comprerò un bar e al momento della chiusura, riverserò sul pavimento litri e litri di salsa di pomodoro. Il primo che si azzarderà a pulire, sarà licenziato e se i clienti, all’indomani, avranno qualcosa da ridire circa la marea rossa, che vadano a fare colazione a casa. Tra qualche ora dovrò essere di nuovo in piedi.
Ma ieri per fortuna è passato, meglio pensare a qualcosa che mi permetta di superare l’oggi. Il barista è solo un barista. Il barista attento è come dio, perché, come dio, vede tutto e tutto insieme. Il quadro plastico che gli viene offerto ogni giorno è composto da tanti attori, i più dei quali recitano una parte, spesso la stessa da anni. Altre volte il copione varia, ma, lui, un po’ regista un po’ spettatore, ha sempre l’insieme tutto insieme, ma sotto al naso. Come le feste a tema, già conosce il tipo di clientela che dovrà aspettarsi, a seconda del clima, della ricorrenza, del giorno festivo o feriale, dell’occasione di un mercato o di un matrimonio che abbia luogo presso la chiesa impiantata nella stessa piazza. Oggi è un giorno di sole di un’estate rovente. Quindi fino alle dieci, oltre alla normale gente anziana della città, il traffico sarà composto da contadini, manovali, postini, uomini d’affari, questi non si fermano mai, villeggianti di passaggio diretti alla vicina autostrada del Sole (che meglio sarebbe stato chiamarla della luna perché ci entri di giorno e ci esci di notte). Il barista ha gli occhi aperti di giorno e di notte. Un occhio al caffè ed uno alla mano del ragazzino che tenta di rubare qualche caramella. Generalmente l’occhio si chiude ma la stanchezza, strana contraddizione, è un ottimo tonico per la frustrazione e per l’amor proprio. È incredibile come risvegli e tenga desti entrambi. Ragazzino oggi fila via, non è aria. Ma di solito accetta le furfanterie: sono solo ragazzini. Quando il caffè si poggia nella tazzina, due occhi lo fissano e una bocca ringrazia. Altre volte la bocca resta chiusa. Ma a questo genere di indelicatezze ormai è abituato. Generalmente, da quando il barista diventa barista, quando esce per locali, inizia a lasciare la mancia ad altri baristi: solidarietà corporativa. Nello stesso istante gli riesce di vedere una coppia conversare amabilmente, tazza in una mano e gomito appoggiato sul bancone, e l’avvocato, più indietro, osservare la donna; il barista vede ciò che gli altri non vedono: il marito, pur fissando la moglie negli occhi, non la vede fissare il secondo uomo in prospettiva. Forse a praticare ogni giorno la gente, non la si guarda più, la si vede davvero. E si vede oltre gli anni di matrimonio, e si inizia a includere le persone in categorie che presto saranno accantonate: educati-maleducati, giovani-vecchi, donne-uomini, ricchi-poveri, lavoratori-nullafacenti, colti-rozzi, e così via. Dopo alcuni anni di lavoro, le categorie si riducono a due: interessanti, meno interessanti. Dopo averne viste e sentite di tutti i colori, lo status sociale, il sesso, il livello d’erudizione si dissolvono. Si sta attenti solo a che il cliente, quello nuovo, abbia qualcosa in più, o in meno, comunque qualcosa di diverso, dalle centinaia che hanno già salito i due gradini, poggiato i gomiti al banco e chiesto da bere. Si attende, come il sole d’inverno, qualcosa che, pur nel suo continuo ripetersi, possa colpire e destare. La donna al banco prima o poi cederà alle avances dell’avvocato. È solo questione di tempo, ma prima o poi lo incontrerà senza il marito. Si vede da come si accarezza i capelli, li sposta da una parte all’altro del collo, da come poggia le braccia, una incrociata sulla pancia e l’altro teso con tre dita, il pollice sotto il mento, gli altri due sul viso, a sostegno del capo. Il cliente di sempre legge il giornale. Un sorso di caffè ogni due pagine, ogni quattro distende tutto il giornale e torna a ripiegarlo su se stesso come fosse un unico foglio. Aspetta l’altro compare, con il quale inizierà le solite, sconclusionate e inutili polemiche sulla politica, la Chiesa problema di tutti, lo Stato canaglia, il comunista e il fascista che si uniscono agli estremi, la pensione insufficiente, le banche sanguisughe per poi passare ai veri temi di interesse internazionale, quali: il sindaco ladrone, il farmacista opportunista, il maresciallo donnaiolo, la gioventù andata, il prossimo matrimonio di non so chi, come sono belli i tempi di una volta. In genere è quello che critica tutti pur concentrando in sé i peggiori difetti di tutti. Difetti della coerenza… L’avvocato è ancora fermo dinanzi ai dolci. Ha comprato una semplice sfogliata, ma sembra che stia mangiando un’intera torta nuziale visto il tempo che ci impiega. Chiaro: finché la donna non uscirà, accompagnata dal marito, continuerà a sfruttare ogni minimo istante per concedere cenni e segnali alla donna, che lei ricambi o meno, in questo triste e sciagurato rituale di corteggiamento.
La voce mi chiama dal profondo del laboratorio: “c’è la pasta da spezzare, mi dai una mano per favore?”. È il mio angelo, l’angelo di tutti. Capelli sporchi di schegge di pasta, male odoranti per le troppe fritture. Una cinquantina di chili racchiusi in un metro e poco di femmina, si portano a spasso, avanti e indietro, con un’andatura oscillante. Questo non è il red carpet, non si oscilla per atteggiarsi. E nemmeno quando, come lei, si lavora tutti i maledetti giorni dell’anno, dalle 6 del mattino a mezzanotte. Unica eccezione la festa della patrona di una piccola contrada di non più di cinquanta anime. La contrada è dove ha vissuto per tutta la vita e dove vive ancora adesso. Il suo profondo senso di religione le impone di impegnarsi per l’occasione.
Si lavora al compleanno, si lavora a Natale, si lavora sempre. Da quando lavoro qui, e ci lavoro i fine settimana (che a volte iniziano di giovedì e finiscono il lunedì) e un paio di interi mesi in estate, mi chiedo dove trovi la forza per farlo. Già, perché l’andatura claudicante non è dovuta alla stanchezza, ma a una piaga incurabile che affligge la pianta del piede destro. Lo scarpone nero, informa del problema come una grossa nube di fumo segnala un incendio. E continua a stare in piedi, ormai da anni, quasi venti ore al giorno. La sua morale, a metà tra un integralista cristiano e un boscaiolo devoto solo all’albero e alla scure, le ha vietato di chiedere la disabilità. “Se sto in piedi, vuol dire che sto bene”. Quasi ho vergogna di me stesso: quante a volte a letto per un forte raffreddore? Ha quasi quaranta anni, sesta di sette sorelle: il piccolino, l’ultimo, unico uomo, ottavo figlio, ha qualche anno meno di lei. Tutto il suo stipendio torna a casa perché da quando è morto il padre, tutti insieme hanno tirato su le maniche delle camicie, non posso dire nemmeno rimboccare, e si sono dati da fare. Le sorelle e la madre, che prende una modesta pensione, continuano a tirare avanti, per quello che possono, con la fattoria, gli animali e le terre. Il suo viso, occhi piccoli, qualche dente dimenticato chissà dove e un nasino lungo e storto, si copre di stanchezza solo a tarda sera, oppure quando abbiamo dei lavori aggiuntivi, come oggi, appunto. Mi ha insegnato tutto quello che so, è stata mia professoressa presso l’università del lavoro. E l’unica soddisfazione che ho provato, da quando sono qui, è l’essere riuscito a portare avanti l’intero bar e l’intera preparazione, il giorno in cui le fitte al piede le impedivano di alzarsi. Né al denaro né alla vita, pensavo, quando andai a dormire esausto, ma al viso di questo piccolo folletto, estirpato dal suo luogo naturale, i boschi, che mi diceva “meno male che c’eri tu”. Maria mi avrebbe salutato con amarezza e occhi lucidi, ma anche con somma felicità, quando le avrei comunicato, qualche anno dopo, la mia decisione di lasciare il lavoro per concentrarmi sullo studio, vista la possibilità di prendere una borsa di dottorato. Mi disse: “Non so che è un dottorato, ma se guadagni senza spezzarti la schiena, vattene. Il lavoro non manca mai e tu qua sei sempre a casa tua”. Non so se la sua tristezza dipendesse più dal non avermi più accanto o dal sapere già di non avere avuto più nessuno accanto, nei mesi a venire. A distanza di tempo, ho capito che la prima prevaleva di certo sulla seconda, ma, fosse stato il contrario, le avrei voluto lo stesso bene che le voglio ancora.
Strappare la pasta all’impastatrice è un lavoro massacrante se lo si conduce senza furbizia. Questi ventiquattro chili di pasta non lasceranno la presa così facilmente, aggrappati come sono, ai bordi del calderone d’acciaio, all’elica centrale che gira per impastare acqua, lievito, sale e farina. La farina, già… maledetto sia l’inventore il cui scarso genio ancora non riesce a progettare dei sacchi che camminino da soli. Proprio l’altro giorno sono stato al mulino. Molto semplice: parcheggi il furgone, carichi tre quintali, divisi in dodici sacchi da venticinque, torni al bar, scarichi e la tua giornata è finita. O meglio, continua, ma tu, sei finito. Il carico di farina si fa alle prime ore dell’alba e lo fa, per mia somma fortuna, il più giovane o l’ultimo arrivato. Le due cose, in questo caso, coincidono. Spero solo, per il candore della mia fedina penale e per la sua incolumità, che il vigile urbano chiuda un occhio quando parcheggerò in divieto di sosta per scaricare la polvere bianca, evitando di camminare con i sacchi in spalla per diverse centinaia di metri. La stanchezza mal si accompagna alla diplomazia.
Maria mi sostituisce al bar, io tiro la pasta. Fervono i preparativi per il matrimonio di stasera: è solo il terzo dei cinque impasti necessari. Bagnare le mani prima di immergerle nella pasta: questo è il trucco per evitare di spezzarsi la schiena tentando di tirare verso di sé questa massa gommosa, che puntualmente torna indietro. Le mani bagnate devono scivolare tra la massa, spezzare, come tenaglie di un granchio, piccoli pezzi di pasta e buttarli sul tavolo. La massa riposerà per una mezz’ora, poi sarà spezzata in pagnotte più o meno grandi, a seconda dello scopo ad esse assegnate. Non si usa la bilancia qui: si deve pesare con la mano. Fausto, il padrone del locale, riesce a fare palline e a dirmi il peso, con un margine di errore che non ha superato mai i cinque grammi. E io mi chiedo, a quel punto, dove finisca la mano e dove cominci la pasta. Spero di continuare a sbagliare e di avere, per sempre, bisogno della bilancia.
Le sfere di pasta vengono sistemate nei contenitori termici e lì riposeranno, per la seconda lievitazione, fino a quando, le stesse mani che le hanno appallottolate, andranno a disturbarle per ricomporle in calzoni, panini e forme strane da gettare in olio bollente o tra le due piastre roventi di un forno. Lo sfero di Anassagora, mi ripeto, avrà più o meno questa forma. Con i presocratici sto a posto: l’esame di filosofia antica è tra una settimana. Come sempre sarà un successo, ma le dottrine etiche di Aristotele proprio non mi entrano in testa. La Metafisica è un’opera edita da Alessandro di Afrodisia nel III secolo d.C. – libero le mani dai residui di pasta fresca, sfregandole bene con una spugna di ferro. In tutta l’opera non compare mai la parola metafisica, ma probabilmente fu la sua catalogazione dopo i libri della fisica (meta ta physika, appunto) a mandarla alla tradizione come Metafisica. Lo stregone ricompone un nuovo artificio: farina gialla, farina 00 nelle stesse quantità. Attenzione a non mettere la farina dura prima dell’altra, perché dopo i primi giri può creare una crosta che rimarrebbe poi nell’impasto. Mezzo pezzo di lievito in estate, un pezzo intero in inverno: qui non si fanno le cose alla svelta, l’impasto deve riposare. Acqua in quantità giusta secondo quanto l’occhio riconoscerà e soprattutto il sale: troppo sale inibisce la lievitazione, troppo sale ne accelera gli effetti a dismisura. La macchina parte. Lo scacco della Metafisica risiede nel paradosso che avvolge il suo primo principio: l’Essere primo o l’Essere più universale? Per buona pace degli scettici, e per buon esito del mio esame, si risolverà l’impiccio dicendo che il principio è universale in quanto è primo. Già: credo che qualche logico avanzerebbe dei dubbi su questa risoluzione. Forse sto diventando scettico o forse il sudore e i fumi delle fritture che mi si attaccano addosso lasciano poco spazio alla fantasia, scatenando il cinismo: come si può costruire una tradizione di duemilaquattrocento anni su opere miscellanee, partendo da quanto i manoscritti tramandano di copie di copie di copie di ciò che qualche allievo intese essere la parola del maestro e mise per iscritto, opere che hanno avuto indefinite edizioni? Tautologia: bisogna avere fede nella buona fede. Cioè sperare, o illudersi, di riavere la bocca barbuta di Aristotele a parlarci tramite migliaia di mani e di anni che l’hanno ripetutamente socchiusa, allargata, sperimentata, esplorata, criticata e poi recuperata. Ogni frase che cominci per “Aristotele pensava” o “Aristotele diceva” oppure “Secondo Aristotele”, dovrebbe essere bandita. Spesso mi fermo ad immaginare Aristotele e Platone totalmente calvi e senza nemmeno un pelo in viso, che passano giornate al fiume a pescare, scherzare e ridere. Li vedo sull’uscio delle rispettive case, accolti dalle mogli di cui la tradizione non ci dice nulla, imbufalite per aver fatto tardi a cena. Li vedo in quel mondo buio e senza luci, senza rumori di notte e senza troppo vino di giorno. Le loro lacrime scorrono come tutte le altre, durante il giorno della morte del loro padre: giù dagli occhi, rapide a solcare le gote e ancora più rapide, cadere in terra, visto che gli inesistenti peli della barba non possono frenare la folle corsa. Li vedo seduti su un tronco d’albero, uno assediato, con piacere, da Sparta, l’altro, con minor piacere, dai capricci di Filippo. Camminando sotto il portico o lungo le colonne che sorreggevano l’edificio dell’Accademia, entrambi, assorti nei loro pensieri: la polis, le donne, il buon governo, quanto vino ho bevuto ieri sera eppure dovrei seguire i miei consigli sulla moderazione; dall’Uno al molteplice e dal molteplice all’Uno, stamani lo stomaco è vuoto, lasciamo sotto il portico la diade e andiamo a cercare qualcosa da mettere sotto i denti; natura o cultura, la morte del corpo e la vita dell’anima, il circolo delle rinascite, il passato glorioso di Atene, la decadenza che prepara il campo al futuro impero macedone. Uomini troppo uomini anche loro, Platone e Aristotele. Di voi ci tramandano dottrine e sistemi: né un’inquietudine, né un lamento. Devo tornare alla preparazione adesso, ma, state tranquilli, ormai è impossibile lasciarvi. Non ricorderò mai le dottrine etiche di Aristotele, tranne quella del “giusto mezzo”: non esagerare, mai lasciarsi soggiogare dalle passioni, ma nemmeno ricadere nella totale insensibilità. Troppo sale gonfia l’impasto, poco sale lo deprime. Aristotele ha teorizzato la lievitazione artificiale..
Se fosse un sabato normale, a quest’ora le mie gambe sarebbero parallele ad un materasso e non perpendicolari ad un tavolo; i miei occhi non sarebbero forse chiusi perché, paradossi della natura, quando si è troppo stanchi non si riposa bene e avrei iniziato già il sommario dei piccoli e grandi dolori che avverto per il corpo. I polsi e i palmi delle mani, a causa della forza usata per schiaffeggiare la pizza; gli omeri e le clavicole quasi inceneriti sotto i sacchi di farina; piedi gonfi e quasi palmati, a metà tra una papera e una rana, ginocchia scricchiolanti per le troppe ore passate a sorreggere i femori e a tener ben ritti tibie e peroni. È possibile solo un inventario dello scheletro poiché i muscoli, ormai, sono tanto indolenziti, da lasciare spazio ad un unico, totale stato di gonfiore-dolore che riveste tutto il corpo come una specie di seconda pelle. a volte mi sembra di avere un’aurea di energia come i personaggi dei fumetti giapponesi. Magari fosse così… e magari potessi almeno fare il solito inventario. Oggi non è possibile perché, oltre al lavoro ordinario, ci tocca il buffet serale per il matrimonio. Già: vivere, bruciando sotto una finestra aperta agli ingenerosi raggi di un sole cocente, dalle due del pomeriggio alle otto della sera, tra un forno a due piastre, temperatura attorno ai 300 gradi, e una friggitrice, temperatura certa di 280 gradi. Gli sposi saranno ancora lanciati nelle danze quando avremo finito. Finito di cucinare, ovviamente. Poi tutto sarà caricato sul furgone, mentre qualcuno resterà a lavare le cinquanta e più, teglie di ferro nelle quali sono state cotte le migliori delizie possibili nella rosticceria. Lo stesso carico sarà portato nelle cucine del ristorante e le stesse persone che lo hanno preparato, svestiti gli abiti da infermieri e vestiti quelli da camerieri, allestiranno la lunga tavolata carica di delizie.
Quando ti trovi stretto tra i tre fuochi, quasi ti manca il respiro. Il tuo corpo, purtroppo, ti obbliga a bere, pur sapendo che tutta quell’acqua sarà trasformato nello stesso sudore che inizierà a pervadere ogni più piccola parte del tuo corpo. Le diverse bruciature sulle mano, alcune, piccolissime, non credo andranno mai via, mi hanno insegnato ad usare sempre lo strofinaccio di tessuto duro per cacciare le teglie dal forno e mi saranno di monito, quando non sarò più a lavoro, a fare tutto ciò che devo e che posso per evitare di tornare di nuovo a tirare teglie dal forno. Il rapporto con l’olio bollente è decisamente più disteso. Secondo me l’olio è come i cani: capisce quando hai paura e, l’olio, non avendo denti come i cani, non morde ma ti scotta. Quando inizi ad accompagnare con le mani i calzoni, le chele di granchio e tutto il resto, quasi toccando la superficie oscura e ribollente, nemmeno una piccola goccia ti toccherà le braccia. È una questione di fiducia: con l’olio bollente si deve empatizzare. Nel frattempo è arrivato anche Fausto , il capo, o “grande capo” come a me piace chiamarlo, notando l’irritazione sul suo volto. Ogni volta mi risponde “io sono un semplice operaio”. Ed è la sacrosanta verità: mai visto un capo che lavori più dei dipendenti, che paghi tanto puntualmente, e che aggiunga sempre qualcosa di più a fine serata. Sempre sorridente, tranne quando fervono i preparativi per il matrimonio e, come al solito, siamo in ritardo. Mi ospita a casa sua insieme alla sua famiglia, tutte le volte in cui lavoro più di un giorno: risparmio benzina ed evito il pericolo di guidare a tarda notte con questa stanchezza. Un paio di volte successe che, per evitare guai peggiori, mi fermavo a riposare un po’ sulle piazzole di sosta svegliandomi, ovviamente, non prima del mattino seguente, con tanto di telefonate preoccupate da parte sua e di mia madre. Da allora non mi ha mai più lasciato tornare a casa dopo il week-end: mi fermavo a dormire là e ritornavo il mattino seguente.
Occhi azzurrissimi, come sua moglie e i suoi due bambini, fronte rigata da rughe profonde e un sorriso quasi mai oscurato da tristezza. Sempre chiuso in una camicia attillata, non per moda ma per crescita esponenziale della pancia, ricorda un po’ i cuochi dei cartoni animati: buffi, col cappello, il pancione e il grembiule. Fausto è stato il primo a dirmi “vai e non ti preoccupare” quando li ho lasciati. Ho poi saputo che spesso ha rimpianto la mia assenza, ma non me l’ha mai fatta pesare. Ha diversi mutui da pagare, tra i due bar e i rispettivi laboratori rinnovati, ma non se ne fa un cruccio: ha sempre campato così, senza soldi o, al massimo, con soldi presi in prestito dalle banche. Un altro paio di anni e i debiti saranno sistemati. Chissà se troverà un po’ di tranquillità. Credo proprio di no. Ha subito riconosciuto la mia diagnosi come giustissima: tu sei nato per lavorare perché senza lavorare non ci sai proprio stare. L’unica persona, di mia conoscenza, che sfrutta la sua unica settimana di ferie in un anno per andare a lavorare i campi insieme al padre anziano. Deve essere un fatto di natura, non c’è alcun dubbio. Un paio di volte sono stato dalle parti dove abita la sua famiglia e ho potuto, credo, immaginare la vita che ha condotto fino a quando, a sedici anni, è andato a lavorare per la prima volta in alta Italia come cuoco: una piccola contrada, con una quindicina di nuclei familiari tutt’ora. Animali, terre e desolazione: l’unica vista che ripaga l’occhio per il suo sforzo, è la totale apertura sul Vallo di Diano. I suoi genitori, nonostante abbiano passato la settantina, continuano così: terre e animali, di estate e di inverno. La pensione per loro è un fatto pratico, sono soldi, solo soldi. La vita è un’altra. Non c’è vita senza lavoro e il lavoro, almeno da queste parti, è solo uno: terra e animali.
Nonostante il diabete ne fiacchi il corpo da anni, il suo spirito è ancora quello di un bambino. Non troverò più un superiore con la sua umanità. Le mani, dolenti per anni di lavoro, custodiscono i segreti del dolce e del salato; come un artigiano con un pezzo di argilla, lui riesce a modellare sfere di pasta, dolce e salata, nelle forme a lui congeniali. Socrate aveva ragione: tra maestro e discepolo intercorre un rapporto di trasmissione come tra vasi comunicanti. Ma qui non siamo sull’acropoli né per le strade che gettano lo sguardo al Pireo; siamo in un paesino e qui, di quei vasi ateniesi decorati in stile attico, non vi è alcuna traccia. Il vaso della dianoia è poco utilizzato; qui sono le mani che trasmettono ad altre mani tutta una sapienza che non vuole ricette. E quelle mani tozze e rovinate hanno trasmesso a queste mani, fino ad allora adatte solo al foglio e alla penna, molto più che una visione eidetica. Lavare dei tegami, rompere delle uova o stendere la massa sul tavolo modellandola in forma di pizza, sono solo differenti momenti della stessa lezione. Dalle mani ritorniamo all’anima. Il percorso è molto accidentato, lungo e difficile da percorrersi, ma gli indizi che servono, le molliche che noi piccoli Pollicini andiamo disseminando senza accorgerci, sono tutte intorno a noi.
Comprendo Bruno solo adesso, qui, tra un forno e una friggitrice e il sole che da destra, attraverso una finestra antica quanto il paese, tenta di stordirmi lanciando lame di luce che mi affettano l’orecchio. La differenza tra noi e le scimmie non è nella dignità, con buona pace del Signore, né nell’intelligenza, con buona pace degli evoluzionisti: è nelle mani. Adesso che l’olio mi marchia le dita, che le unghia portano a spasso pezzettini di pasta, adesso che riesco a controllare la temperatura dell’olio immergendovi un dito capisco che non la massa celebrale, ma le mani, sono le nostre antenne, il nostro sensore di equilibrio. È la mano che avvicina il circostante, sia esso un calzone, una penna o una pala di ferro. E il corpo segue le mani come un cieco segue il suo bastone: con la fiducia di chi riconosce una guida fidata, con la rassegnazione di chi non ha altra scelta. Ci penso solo adesso: non ho mai scritto disteso sul letto, con la testa che guarda il soffitto e le braccia stese; non ho mai infornato una pizza con le braccia tese e il corpo ben disteso. Solo adesso capisco la saggezza delle mani.
Ha sempre una battuta pronta, una barzelletta da raccontare, un episodio del passato che ti proietti al di fuori del bar e ti dia un attimo di riposo. È il capo, è vero. Ma lavora più di tutti e questo brutto vizio i capi, gli altri capi, non l’hanno ancora assunto. Con molta attenzione, mi ha insegnato a usare i coltelli. La mia poca attenzione la porto segnata sul dito medio della mano sinistra. L’equipe, sotto la guida del capo, continua a lavorare con frenesia: sono le sei del pomeriggio e tra un paio d’ore il buffet deve essere pronto. Cinque persone a lavoro per il vezzo di cinquecento. L’aria sta diventando irrespirabile: troppo caldo, troppo fumo (tra le sigarette di Fausto e l’aspiratore di fumo che non funziona bene), troppo movimento, in quello spazio così angusto. Ma adesso ho ancora vent’anni e mi basta continuare a pensare alla paga di fine serata e frasi quali “ce la devi fare”, per andare avanti: integralismo adolescenziale. Avessi potuto fermarmi un po’ prima, forse avrei fatto a meno di stress e dermatiti. Ma quando il lavoro è finito, lo studio ha cessato di essere semplicemente una passione per diventare una vocazione. E la rabbia scaricata nel lavoro è diventata impeto per lo studio. Svegliarsi alle sei del mattino, uscire di casa calpestando la neve; il volto ripulito dalla più invisibile peluria (non ho mai odiato nulla della vita come tenere il volto perfettamente rasato); guidare per alcuni chilometri e prendere il primo di tanti caffè; continuare a stare in piedi nonostante la stanchezza, le troppe sigarette, il pensiero che vola al di là della grata fino a una frase nascosta in un libro nella biblioteca della più piccola città dell’Europa centrale o verso una foresta di faggi che non conosce altri rumori che quelli del sottobosco. Continuo a pensare, adesso che tutto è pronto e il furgone è quasi in partenza, al modo in cui rendere reali le cose che vado pensando e non lasciarle semplicemente pensieri, costretti, come sono, in qualche metro quadro di cucina. I pensieri resterebbero gli stessi, cambierebbero solo di spessore: da desideri volatili, a vita reale.
Finita la preparazione si carica il furgone, ci si veste di tutto punto e si parte: alle volte sono così elegante da domandarmi cosa mi manchi, oggi, per sostituire lo sposo. Inizia così la terza, quarta o quinta parte della giornata: ormai ho perso il conto. Svesto i panni del rosticciere per assumere quelli, più comodi, del cameriere. Tutte le prelibatezze cucinate vengono poste in contenitori termici, caricati sul furgone e scaricati poco (o molto) dopo, a seconda dell’hotel di destinazione. Se gli inservienti del locale saranno stati buoni, troveremo il buffet già montato, altrimenti dovremmo spostare tavoli pesanti come rocce tra la confusione di vestiti ingombranti, sguardi alticci poco rispettosi e una gioia, ai miei occhi, del tutto ingiustificata. Esposta la mercanzia negli appositi spazi, inizierà la fiera dell’ingordigia: non saprei come diversamente definire un buffet pieno di roba allestito per far mangiare gente che ha finito da non più di dieci minuti un pranzo di dodici portate.
Il matrimonio è un rito sociale, forse anche un rito di passaggio per certi aspetti. Questo è il male minore. Il matrimonio, purtroppo, è soprattutto un’istituzione ormai, credo, inestirpabile nella nostra società. Io lo eliminerei con decreto legge. Non vedo nessuna ragione perché si debba riporre la propria vita di coppia nelle mani del sindaco, sia che appartenga alla città terrena sia che appartenga alla città celeste. La natura non ha bisogno di parole o di sacramenti per perpetuarsi: dunque non sarebbe un problema avere figli. L’attrazione fisica prima o poi finisce e, se qualcosa resta tra due persone spesso tanto differenti, dopo tanti anni, non dovrebbe avere bisogno di ulteriori vincoli per restare in unità. Da operaio, ho sempre guardato al giorno della celebrazione come al giorno più felice e, a un tempo, più triste del futuro prossimo e di quello remoto. Si festeggia come un condannato potrebbe festeggiare l’ingresso in carcere. Non è qualunquismo da giurato scapolo. È uno sguardo disincantato, forse cinico. Per bene che vadano le cose, si accetta definitivamente di dividere, condividere, frustrare e tormentare la propria unità irripetibile in vista delle più alte o basse pretese da parte del compagno. Cene in famiglia, shopping, forse gite in barca, per i più fortunati. E sullo sfondo, tanto ma tanto vuoto. L’ultimo giorno di relativa libertà lo si festeggia consumando quintali di cibarie che non potranno nemmeno far felici i cani degli invitati: nei ristoranti è vietato portare via gli avanzi, c’è a rischio la salute pubblica. Guardo gli occhi dello sposo e cerco di immaginarli tra dieci, forse vent’anni. Un po’ appesantito, forse qualche moccioso in giro per casa, una sera a settimana il calcetto con gli amici e tutte le notti a fianco di una persona che non riconosce più.
Finché continueranno a mangiare e a ballare, non potrò muovermi dal tavolo. Non si può andare a fumare, non ci si può sedere né si possono appoggiare i pugni: dritte le spalle, ben tesa la schiena, dove le mani si uniranno, una di esse stringerà l’altro polso. Ma stasera non è la stanchezza che mi pesa, immobile come un capitello, qui dietro. Maledetto sia l’arredatore di alberghi che ha messo uno specchio proprio dove lo sposo sta ballando o maledetto lo sposo che balla davanti allo specchio. Posso vedere la mia faccia e non voglio. La sto fissando da qualche minuto: nessuno se n’è accorto, ma ho sbagliato. In luogo della cravatta e del collo della camicia, questo straccio doveva restare a cornice di tazze e bicchieri. Tra qualche ora sarà tutto finito.
Ho lasciato il lavoro quando ho saputo della possibilità di partecipare a un concorso di dottorato. Erano passate un paio di settimane dalla mia prima laurea. Qualche giorno prima avevo imparato a fare a meno della bilancia per pesare la pasta.


Su Angelo Tavolaro
Nato a Potenza, è cresciuto ritagliando fotogrammi della ricchissima povertà lucana. Da qualche tempo iniziato ai misteri orfici, è cacciatore di falsi d’autore. Rilegge il passato nei volti presenti, vive l’odierno in antichi volumi, allontana il futuro scrivendo racconti.

Sulla rubrica Squarci
Se la scrittura si serve di aghi e coltelli, se punge e lacera, se ogni pagina apre un varco in mezzo all'ovvio e al non detto, se la ragione ha bisogno di attimi di illucidità, se ogni testo si apre su un paesaggio interiore, se è un buco della serratura da cui spiare il mondo, se duole, se è una lama nella carne, se è una trama interrotta in un punto a caso, se la narrazione si spezza come un canto, se è una dissonanza, se semplicemente siete curiosi di sapere chi siamo. Estratti, ferite, fenditure di scrittura, un modo per sentire i nostri silenzi e leggere tra le righe di ciò che abbiamo in cantiere.