Squarci | sabato 1 settembre 2012

Annarita Lamberti

Quello che non si può dire

Fino a poco tempo fa non ci avrei pensato due volte, anzi, fino a poco tempo fa non mi sarei ritrovata in una situazione simile, non sarei arrivata a tal punto ma alla quota di un centimetro, al massimo, sarei corsa dal parrucchiere. Ora, invece, passo e ripasso davanti allo specchio, mi esamino con tutti i tipi di luce, diretta, indiretta, di mattina, di pomeriggio, di sera, provo a vedere se sistemandoli in un modo o nell’altro, se magari raccogliendoli… Non ho voglia di andare dal parrucchiere, non ho voglia di tingerli nè di tagliarli. Vorrei poterci non pensare ma mi danno un senso di trascuratezza, di vecchiume, ecco, sono come una dichiarazione inequivocabile.
Lo capiscono tutti, vero? Lo capiscono tutti al primo sguardo, vero?
Non voglio che si capisca ma non faccio niente perché ciò non avvenga. Non ho voglia di tingermi i capelli eppure non mi sento a mio agio con questa avanguardia bianca, radunatasi proprio sulla fronte. Si concentra giusto lì come una dichiarazione inequivocabile, ecco.
E io non reagisco, non nego. È da quasi due mesi che non vado dal parrucchiere.
Sembrerebbe che abbia issato la bandiera bianca e, invece, non sono serena in attesa che vengano a farmi prigioniera.
Per il resto ho accettato tutto. Ho ceduto, per la precisione. È da febbraio che non faccio più la terapia. Non ho ragionato, considerato gli aspetti della situazione. Ho semplicemente avvertito il senso di umiliazione che quella terapia semplice mi infliggeva e semplicemente ho lasciato quelle pilloline nelle loro scatole. E sono andata avanti lungo il percorso in cui il fiume non si tinge più di rosso. E ho cominciato ad aver paura dell’inaridimento, di quando si presenterà in tutta la sua evidenza. Mi guardo il viso per scorgere le rughe. Le mani per notare se ci sono grinze o macchie.
Quello che si nota di più è che i miei fianchi si sono arrotondati e così la pancia e il fondoschiena. E il seno pure. Tutto molto proporzionatamente. Questo è quanto si vede.
I vestiti di prima mi vanno lo stesso ma faccio un effetto strano. E, poi, la sensazione di pesantezza: non ho preso molti chili ma è come se avessi cambiato peso specifico. Come se da alluminio fossi diventata piombo. Spesso il viso mi sembra gonfio, poi, di meno, subito dopo di nuovo gonfio. A volte sospetto dipenda dallo specchio, dalla luce, non so. Mi illudo di non essere davvero io quella che vedo nello specchio.
Poi, c’è quello che sento: un dolore sordo all’ovaia destra. Costante e sordo.
Ma il dolore fisico è solo un dettaglio insignificante. Il dolore sta altrove. È una sensazione di inadeguatezza, di discronia. Sono come un film doppiato male: la voce in ritardo o in anticipo rispetto ai movimenti delle labbra. E anche quello che dico è in contrasto con quello che appare, e quello che sento con quello che appare.
La mia capacità di comprensione si è alterata. Non capisco veramente quello che mi si dice come se le parole avessero improvvisamente cambiato di senso, come se, pur comprendendo la lingua nelle sue strutture fondamentali, fonetiche e lessicali, non ne possedessi più la semantica. Come se quella lingua, la mia lingua, l’avessi imparata in un altro pianeta dove il pane, per esempio, non è pane e l’acqua non è acqua. E capita che quel che mi viene detto mi ferisca ma non reagisco più, non protesto, non mi innervosisco. Rimango in silenzio. Mi rifugio lontano. E in superficie non si vede niente, credo.
Mai come nell’ultimo periodo ho ricevuto apprezzamenti maschili, d’altronde, si dice “mi piaci quando taci perché sei come assente”. Il mio medico è tra questi. “La vedo raggiante”, “Quanto è dolce… deve essere difficile litigare con lei…”. “Ora, deve fare ricorso a tutte le sue risorse. Si diverta. Ora non ha più questo fastidio… si può rilassare…si diverta.”
Io ho sorriso. Ora mentre ci ripenso, invece….
La prima volta che me lo ha detto, poco più che un anno fa, quando ancora non c’era la certezza: “E anche se fosse? Ci sono tanti aspetti positivi!”. Sono scoppiata a piangere. L’ho trovato offensivo, un’offesa fisica, come lo squarcio di un pugnale in pieno petto.
Il giorno dopo l’ultima parola che capii fu “sottile” attributo di “endometrio”. “Endometrio sottile” era la mia sentenza. Poi, la dottoressa cominciò improvvisamente a parlare una lingua oscura.
Di tutto quel lungo discorso ricordo: “troppo presto”, “contrastare”, “ripristinare”.
Poi mi aggrappai ad un foglietto e corsi in farmacia. Per tredici giorni ho pianto, fino a che il fiume rosso non riprese a scorrere. La portata del fiume è stata abbondante per tre mesi, poi, ha cominciato a diminuire tanto da trasformarsi in un rivolo irrisorio, poi, c’è stata una piena inattesa, poi, più niente. Più niente.
Per sette mesi ho vissuto in ragione di due pilloline. Poi le ho viste come sinistre, oggetti offensivi, veleni che non producevano l’effetto desiderato. E le ho lasciate lì, nelle loro scatoline.
Mi sono sentita umiliata. Dovevo essere quello che non potevo essere più.
Ho ceduto o mi ci sono abituata o entrambe le cose.
Non ero preparata a quello che mi è successo. Mi ha sorpreso quando credevo di avere almeno altri dieci anni davanti a me. Nessuno ti avverte che può succedere con tanto anticipo, nessuno ti prepara. Senti dire di sfuggita, di tanto in tanto che non è una malattia, che è una cosa normale ma nessuno ti dice che può arrivare prima dei quarant’anni.
All’inizio ho subito tutta la serie di speculazioni sulle possibili cause. Qualcuno mi ha detto che è stato il mio ultimo regalo all’uomo che amavo: perdere la mia femminilità mentre lui perdeva la vita.
Ora, invece, è il tempo di subire tutta la serie delle constatazioni degli aspetti positivi. L’assenza di rischi, la possibilità di rilassarmi, di essere libera. Libera di comportarmi come un uomo. Di poter saltare da un letto ad un altro senza conseguenza alcuna.
Sono diventata comoda. Forse, è per questo che mai come da quel crudele maggio dello scorso anno sortisco tanto interesse, sguardi avidi, che spingono ad avvicinarsi a pronunciare parole appassionate.
“Metta a frutto tutte le sue risorse, si diverta!” Ora che non ho alcun desiderio.


Su Annarita Lamberti
Annarita Lamberti (1971) insegna Lettere in un Liceo napoletano. Esordisce nella scrittura scientifica, dedicandosi per anni alle ricerche di geografia politica e umana con un approccio culturale e post-coloniale sulle tematiche urbane e sul rapporto tra letteratura e geografia. Nel 2005 ha conseguito il titolo di Dottore di Ricerca in Geografia dello Sviluppo all'Università “L’Orientale” di Napoli, discutendo una tesi sul rapporto tra arte e sviluppo urbano a Tel Aviv. Ha insegnato all'Università di Bergamo e ha pubblicato numerosi articoli su riviste scientifiche. Nel 2014 ha conseguito l’Abilitazione Scientifica Nazionale a professore di seconda fascia in Geografia. La sua passione per la letteratura l’ha portata a riscoprire i classici e a scrivere narrativa. OXP ha già pubblicato alcuni suoi racconti brevi.

Sulla rubrica Squarci
Se la scrittura si serve di aghi e coltelli, se punge e lacera, se ogni pagina apre un varco in mezzo all'ovvio e al non detto, se la ragione ha bisogno di attimi di illucidità, se ogni testo si apre su un paesaggio interiore, se è un buco della serratura da cui spiare il mondo, se duole, se è una lama nella carne, se è una trama interrotta in un punto a caso, se la narrazione si spezza come un canto, se è una dissonanza, se semplicemente siete curiosi di sapere chi siamo. Estratti, ferite, fenditure di scrittura, un modo per sentire i nostri silenzi e leggere tra le righe di ciò che abbiamo in cantiere.

La chiave falsa, di Annarita Lamberti (I Coltelli, 2018)