Squarci | mercoledì 18 luglio 2012

Valerio Bruner

Quanto vale una vita umana?

“Io voglio scrivere su tutti i muri ovunque siano muri [...]
Io chiamo il cristianesimo unica grande maledizione,
unica grande intima perversione, unico grande istinto di vendetta [...]
Io lo chiamo unico imperituro marchio d'abominio dell'umanità...”
F. Nietzsche


Di lì a poco sarebbe piovuto. Il cielo all’orizzonte era diventato color dell’acciaio e il rombo sordo dei tuoni che si appressavano era cupo come i rantoli di agonia di un Leviatano morente. Un presagio di morte viaggiava veloce sulle ali del vento di Levante, freddo e umido. Si abbassò il cappuccio del mantello, le prime gocce di pioggia gli punsero come spine il volto segnato dagli anni. Come le spine della corona di Cristo, un pensiero che allontanò immediatamente, come se i delegati della curia papale ivi riuniti potessero leggergli nella mente.
Avrebbe barattato volentieri tutti gli anni della sua miserabile vita per avere l’occasione di tornare a quel bivio quando, in un tempo antico, aveva imboccato il sentiero sbagliato. Ma era tardi ormai, l’inverno avrebbe spazzato via implacabile le sue vecchie ossa e nulla di lui sarebbe rimasto nei giorni a seguire. La sua anima, solo quella sarebbe sopravvissuta, condannata a vagare per l’eternità nel tormento e nella colpa, sporca e scura come la ruggine che punteggiava la lama della sua spada. La estrasse lentamente dal fodero, l’attrito dell’acciaio sul cuoio risuonò come un monito. “Questo sangue ricadrà anche sulle tue mani” sembrò sussurrargli.
Volse lo sguardo al di là della folla, in quel punto dove questa si stava aprendo come le onde del Mar Rosso per lasciar passare un carro trainato da due buoi. Si morse il labbro fino a farlo sanguinare nel vedere quella ragazza, poco più di una bambina, venir bersagliata dagli sputi e dagli insulti della folla inferocita. Per un attimo incrociò il suo sguardo, prima che una mela marcia le colpisse in pieno il volto, facendole abbassare la testa. La pioggia si fece più insistente, insinuandosi come una serpe tra gli strati di lana e di cuoio che lo proteggevano dal freddo invernale, mentre il mugghiare dei tuoni era diventato talmente possente da sovrastare le urla della folla. Fu grato di quel temporale, perché avrebbe risparmiato alla condannata la crudele sofferenza di essere arsa viva sul rogo.
Strega per sua stessa ammissione, questa era stata la sentenza emessa dal tribunale della Santissima Inquisizione. “Eppure” non poté fare a meno di pensare “quanto vale una confessione estorta con le tenaglie arroventate che ti strappano la carne e firmata con gli aghi infilati nelle dita delle mani?” Chiunque avrebbe ceduto alle accuse più infamanti alla vista della Garrota o della Vergine di Ferro, persino il guerriero più coraggioso avrebbe confessato di aver giaciuto finanche con la Vergine Maria, purché il dolore avesse termine. Galeno lo sapeva, erano anni ormai che estirpava confessioni torturando allo stremo presunti eretici e streghe, impalando uomini e donne il cui peggior reato era stato non essersi recati a messa la domenica. Eppure, in quei giorni oscuri, questo era un peccato più che sufficiente per essere tacciati di eresia. Ogni volta che incrociava quegli occhi spalancati che lo supplicavano di smettere, gli tremavano le mani e nel profondo della notte piangeva, mordendosi le dita fino a farle sanguinare.
“Non c’è peccato in te figliolo, non hai alcuna colpa tu. Sono anime del demonio condannate al fuoco della purificazione a causa delle loro eresie. Sono cani ribelli che hanno morso la mano del padrone e come tali devono essere puniti. Questi tuoi dubbi, mio caro Galeno, sono opera del maligno che si fa strada nella tua mente, facendoti dubitare della stessa volontà di Dio. Non permetterglielo! Non lasciargli sporcare l’alto compito al quale sei stato chiamato dalla Santa Madre Chiesa. Mortifica la carne quando la tua anima è attanagliata da queste sciocche paure e vedrai che il demonio andrà via, insieme al sangue infetto che ti annebbia la mente.”
Fu in una di quelle conversazioni che aveva capito quanto fosse imprudente rivelare i suoi timori a padre Juan, il cappellano del villaggio. Allora, da vigliacco qual era, aveva tenuto le sue angosce per sé ed era andato avanti come uno stupido asino che, nonostante i calci e le bastonate, obbedisce tuttavia agli ordini del padrone mentre sogna di mangiare pasta di zucchero e mele candite. E come un vecchio e macilento asino, Galeno Pereira aveva sulla sua schiena più cicatrici di quante ne avesse Cristo il giorno in cui venne crocifisso, per le frustate con cui ogni notte sperava di far tacere la sua coscienza. Le macchie del suo sangue si erano impregnate per sempre sul pavimento della sua stanza, eppure i dubbi che gli mordevano l’anima erano rimasti al suo fianco giorno e notte.
Il rombo di un tuono, forte come le trombe del Giorno del Giudizio, lo destò bruscamente dai suoi pensieri. La ragazza era stata condotta sul patibolo, incatenata e sorretta a braccetto da due nani che le punzecchiavano le natiche con un pungolo di legno. Colpì uno di quelli col pomo della spada e allontanò l’altro con un calcio. “Che pensino pure quello che vogliono” si disse “non darò a questi guitti il piacere di umiliarla.” Poggiò le mani sulle spalle della fanciulla, talmente fragile ed esile che un alito di vento l’avrebbe spazzata via come una foglia, e delicatamente la fece inginocchiare davanti a sé.
“Sta’ ferma” le sussurrò all’orecchio mentre le spostava i capelli da un lato “non sentirai nulla, bambina.” Lei si voltò a guardarlo, i suoi occhi verdi e rassegnati gli lessero nel profondo dell’anima e per un attimo Galeno provò l’impulso irrefrenabile di liberarla e portarla in salvo chissà dove a rischio della sua stessa vita. Ma era soltanto un vecchio malandato, che sarebbe stato sopraffatto immediatamente da poche guardie armate.
Appoggiò la lunga lama sul collo della ragazza, affilata e opaca come la linea che separa i peccatori dalle anime pie. Alzò gli occhi al cielo, il sole non avrebbe più fatto ritorno da quel giorno in avanti. Menò un unico fendente deciso. Il corpo si accasciò a terra mentre la testa rotolò ai piedi di uno dei due nani, che la raccolse esultante e fece il giro del patibolo danzando trionfalmente.
“Fiat voluntas Dei!” dichiarò solenne un giovane prelato. Dalla folla si levò un urlo di giubilo, l’urlo di quelle madri e di quei padri i cui figli avrebbero guardato ancora la luce del giorno. Ripulì sul mantello la lama dal sangue e dai capelli, la ripose nel fodero e si trascinò giù per le scale cigolanti del patibolo .
“Boia!” lo fermò il capitano delle guardie porgendogli un sacchetto di cuoio “Questo è il tuo compenso.”
Quanto vale una vita umana? Quel giorno valeva trenta monete ammaccate ed arrugginite. Il temporale non accennava a smettere, Galeno Pereira si tirò su il cappuccio del mantello e si avviò a passi lenti verso casa.


Su Valerio Bruner
Nato a Napoli nel 1987, si è laureato in “Lingue e Culture Comparate” presso l'Università di Napoli "L'Orientale". Interessato alla letteratura di ogni tempo e di ogni luogo, scrive poesie e racconti. È appassionato di cinema, di blues e di Bruce Springsteen. Attualmente scrive per le sezioni Esteri (Nord America) e Cultura per “il Levante” di Napoli. Scrittore di poesie e racconti, "La Ballata del Drago e del Leone" è il suo primo testo teatrale.

Sulla rubrica Squarci
Se la scrittura si serve di aghi e coltelli, se punge e lacera, se ogni pagina apre un varco in mezzo all'ovvio e al non detto, se la ragione ha bisogno di attimi di illucidità, se ogni testo si apre su un paesaggio interiore, se è un buco della serratura da cui spiare il mondo, se duole, se è una lama nella carne, se è una trama interrotta in un punto a caso, se la narrazione si spezza come un canto, se è una dissonanza, se semplicemente siete curiosi di sapere chi siamo. Estratti, ferite, fenditure di scrittura, un modo per sentire i nostri silenzi e leggere tra le righe di ciò che abbiamo in cantiere.

La Ballata del Drago e del Leone, di Valerio Bruner (Gli Ibischi, 2013)