Squarci | giovedì 21 giugno 2012

Valerio Bruner

Ventura

Il mantello nel quale si era avvolto per ripararsi dal gelo della notte era diventato rigido e pesante come una cotta di maglia. La rada peluria che gli ricopriva le guance screpolate era incrostata di ghiaccio e i guanti foderati di pelliccia non avevano impedito alle dita delle mani di intorpidirsi e arrossarsi. Si chiese se avesse sentito dolore qualora le avrebbe tagliate via.
“Maledetto inverno e dannata terra.” Odiava l’Italia, un luogo tetro ed inospitale, governato da duchi e baroni sempre pronti a farsi guerra l’un l’altro pur di accaparrarsi qualche appezzamento di terra in più. Grassi maiali seduti intorno ad una tavola imbandita, intenti ad ingozzarsi il più possibile mentre gli uomini morivano sui campi di battaglia per i loro capricci. Ma Heinfried si guardava bene dal manifestare questi pensieri a voce alta, se non voleva ritrovarsi con un cappio intorno al collo e i corvi che si contendevano i suoi occhi. Era questa la punizione a cui andavano incontro i disertori della Compagnia della Colomba di Orlando di Luchom, il condottiero mercenario con il più singolare senso dell’onore che Heinfried avesse mai visto. Per quell’uomo il tradimento e la diserzione erano i reati peggiori di cui un soldato si potesse macchiare, eppure lo aveva visto vendersi a Perugia per un misero titolo nobiliare e con la stessa facilità passare al soldo di Arezzo, allorché le sorti della battaglia si erano capovolte. Era il 1335 se non ricordava male, il fumo divampava dai villaggi messi a ferro e fuoco e le grida dei moribondi si levavano alte, invocando un Dio che quel giorno era rimasto a guardare assiso sul suo trono celeste.
“Bottino di guerra”: così si diceva in italiano per indicare i tesori e le donne che venivano conquistati sul campo di battaglia. Non partecipava mai agli stupri, la sola idea di prendere una donna contro la sua volontà gli procurava un senso di disagio, di impotenza. Una cosa che non sembrava affliggere i suoi compagni d’arme, soprattutto Karl, che aveva infilati nella barba tanti anelli quante le donne che aveva violentato. Il suo arrivo era preannunciato da un tintinnio assordante quanto le trombe dell’ Apocalisse.
L’odore inconfondibile della birra lo distolse dalle sue riflessioni. Prese il boccale che Joseph gli porgeva e mandò giù una lunga sorsata. La birra era calda e annacquata, ma era meglio dell’ acqua putrida e stagnante che beveva durante le marce estenuanti per raggiungere Arezzo. Si guardò intorno, anche Joseph, come gli altri, teneva lo sguardo basso e non proferiva parola. Lo sconforto vagava per l’accampamento come una fantasma senza pace. Erano rimasti meno di cinquecento e le truppe nemiche superavano l’esercito fiorentino di tre a uno. Il solo pensiero di vincere quella guerra era una follia.
«Toh, prendi!» gli disse un ragazzino tutto lentiggini che portava le ciotole di zuppa tre alla volta. Lo stufato era una brodaglia scura nella quale galleggiavano indistintamente pezzi di carote, rape e pezzetti di carne di provenienza incerta. Tirò fuori dalla bisaccia una pagnotta, era talmente dura che avrebbe potuto sfondare il cranio di un uomo. La sbriciolò alla meglio e la gettò nello stufato per ammorbidirla. La prima cucchiaiata che ingoiò fu sul punto di farlo vomitare, ma dopo un po’ fu grato del calore che la zuppa dava alle sue membra intirizzite dal freddo. Si strinse nel mantello e si fece più vicino al focolare.
«Quanti uomini abbiamo perso oggi?» chiese un individuo basso e tarchiato sfigurato da una orrenda cicatrice, la quale gli attraversava il volto in diagonale, ricordo della battaglia di due anni fa.
«Cento… settanta armigeri e trenta cavalieri» rispose Thomas, uno dei pochi della Compagnia che sapesse fare di calcolo «abbiamo recuperato le armi che abbiamo potuto e macellato i cavalli.»
Ecco spiegata la carne nello stufato. Mandò giù un’altra sorsata di birra per evitare che il pane raffermo gli si fermasse in gola e finisse per soffocarlo. Avevano subito una dura sconfitta quel giorno, le truppe aretine e i loro alleati li avevano colti di sorpresa. La Compagnia della Rosa e le Aquile Nere avevano disertato subito dopo l’imboscata, passando al servizio del nemico. Solo un miracolo li avrebbe salvati domattina. Si ritrovò a pensare alla sua vecchia casa, un piccolo villaggio immerso nel profondo della Foresta Nera, che aveva lasciato qualche anno fa per cercare fortuna come soldato di ventura. Il ricordo del profumo del pane che suo padre cuoceva nel forno era dolce come miele sulle labbra di una vergine.
«Io ho chiuso» disse in un sussurro Joseph. La sua affermazione aleggiò per un momento in mezzo agli uomini raccolti intorno al fuoco, nera come un corvo che sorvola il campo di battaglia. Il suo amico era un guerriero forte e valoroso, segnato da mille battaglie e con più buonsenso di tutta la Compagnia della Colomba messa assieme.
«Sì, me ne vado anche io» gli fece eco Gottfried, un ragazzo dall’aria famelica al quale mancava buona parte dell’orecchio destro.
«Siete due codardi, una vacca gravida ha più coraggio di voi due messi insieme» li apostrofò Karl, appoggiato alla lunga Zweihänder conficcata nel terreno ai suoi piedi. Era una lama imponente che gli italiani chiamavano spadone a due mani. In più di un’occasione Heinfried aveva visto Karl spaccare un uomo a metà con quell’arma. Era un guerriero formidabile, il primo a gettarsi nella mischia e l’ultimo a ritirarsi, ma la sua sete di sangue lo rendeva un individuo crudele e spietato. «Se fossi in voi inizierei a correre da adesso, prima che vi stacchi la testa e mi fotta i vostri cadaveri ancora caldi.»
«Tieni a freno la lingua, bestione.» La voce di Lars era ferma e tranquilla. Era un giovane di bassa statura, sul quale nessuno avrebbe mai scommesso che sarebbe sopravvissuto al primo scontro, eppure Lars era freddo e veloce, un binomio che lo rendeva letale. Era un virtuoso del combattimento con la spada e l’ascia corta. «Vi capisco amici, comprendo il vostro sconforto, ma vi dico che questi timori vi passeranno appena metterete il vostro uccello nella fica di una bella aretina. Non temete, la fortuna combatte al nostro fianco.»
La sfacciataggine di quell’uomo suscitava in Heinfried un misto di rabbia e di ammirazione. Lars era un guerriero temibile, i suoi occhi erano grigi come il cielo prima della tempesta. Si era unito alla Compagnia la scorsa estate: un ragazzo la cui vita era avvolta nel mistero dal momento che non aveva mai parlato del suo passato con nessuno dei suoi compagni d’arme. Nonostante la sua giovane età, trasmetteva una sicurezza e una calma che facevano di lui il guerriero perfetto, quello che avresti voluto avere al tuo fianco prima di gettarti nella mischia.
«E tu Heinfried? Che cosa pensi?» gli chiese Joseph.
Stava per aprire bocca e dire cosa ne pensasse di quella guerra che aveva logorato i loro corpi e dannato le loro anime per sempre, urlare la sua furia contro quei ricchi signori per i quali i soldati di ventura non erano altro che pedine nel grande gioco del potere, quando un movimento improvviso alla sua sinistra gli frenò la lingua.
«Il primo di voi che fa una mossa lo mando a lucidare le corna del demonio. Voi due» disse un incappucciato indicando Joseph e Gottfried «siete in arresto per sedizione. Prendeteli!» Obbedendo agli ordini dell’uomo, alcuni soldati li legarono con le mani dietro la schiena e li condussero in catene verso la tenda del comandante. Lo sguardo triste di Joseph fu l’ultima cosa che Heinfried vide prima che quei soldati portassero via il suo amico. L’uomo misterioso era un aiutante di campo del comandante (si venne a sapere), che si aggirava camuffato ogni notte per l’accampamento per ascoltare e stroncare sul nascere qualsiasi tentativo di sedizione. Nessuno aggiunse più una parola e ognuno si avvolse nella propria coperta come se non fosse accaduto nulla.
Il mattino seguente i cadaveri di Joseph e Gottfried penzolavano da un olmo gigantesco con in petto inchiodato un pezzo di legno con la scritta Verräter, traditori. Il corno risuonò possente per tutto l’accampamento ad avvertire i soldati che era tempo di alzarsi e disporsi per la battaglia.
Nell’anno del Signore 1337 la Compagnia della Colomba, che contava poco più di 350 uomini tra le sue fila, si schierò a fianco di Firenze contro gli eserciti congiunti di Pier Saccone Tarlati, condottiero di Arezzo, e di Mastino della Scala, signore di Verona. Seppure affamati e soverchiati di numero, l’esercito fiorentino ebbe la meglio quel giorno nella sanguinosa battaglia campale che ebbe luogo nei pressi della città di Lucca. Pochi giorni dopo la Compagnia della Colomba fu sciolta ed ogni suo soldato poté fare ritorno alla propria casa.
Ma a Heinfried, sconosciuto soldato di ventura, toccò una sorte diversa. Morì quel giorno, trafitto alla schiena da una picca, mentre il sole brillava alto sul piccolo villaggio immerso nella Foresta Nera e il pane appena sfornato riempiva l’aria di un aroma dolce e delicato.


Su Valerio Bruner
Nato a Napoli nel 1987, si è laureato in “Lingue e Culture Comparate” presso l'Università di Napoli "L'Orientale". Interessato alla letteratura di ogni tempo e di ogni luogo, scrive poesie e racconti. È appassionato di cinema, di blues e di Bruce Springsteen. Attualmente scrive per le sezioni Esteri (Nord America) e Cultura per “il Levante” di Napoli. Scrittore di poesie e racconti, "La Ballata del Drago e del Leone" è il suo primo testo teatrale.

Sulla rubrica Squarci
Se la scrittura si serve di aghi e coltelli, se punge e lacera, se ogni pagina apre un varco in mezzo all'ovvio e al non detto, se la ragione ha bisogno di attimi di illucidità, se ogni testo si apre su un paesaggio interiore, se è un buco della serratura da cui spiare il mondo, se duole, se è una lama nella carne, se è una trama interrotta in un punto a caso, se la narrazione si spezza come un canto, se è una dissonanza, se semplicemente siete curiosi di sapere chi siamo. Estratti, ferite, fenditure di scrittura, un modo per sentire i nostri silenzi e leggere tra le righe di ciò che abbiamo in cantiere.

La Ballata del Drago e del Leone, di Valerio Bruner (Gli Ibischi, 2013)