Squarci | giovedì 31 maggio 2012

Vincenzo Cioffi

Non desiderare la donna d'altri

Una rapida carrellata quasi cinematografica, al margine sinistro della mia visuale c'è Punta del Capo, una lingua di roccia lambita dal mare, su cui è arroccato il rudere dell'antica villa romana citata in opere di Stazio, Strabone, Plinio e Orazio.
Il margine destro è occupato da Punta Scutolo, un sperone roccioso che scivola dalla montagna incuneandosi nella baia di Meta Alimuri, simile ad un possente artiglio vecchio migliaia di anni.
Meno di otto chilometri a dorso d'uccello. Ora questa è casa mia. Sotto di me si snoda Sorrento, con la mappa quadrata tipica delle città di origine romana. Da quasi un anno sono stato trasferito alla parrocchia di San Biagio, nel rione Casarlano. Dal mio vecchio alloggio la mattina respiravo l'aria di città mentre le curve sinuose del colonnato di Bernini incorniciavano una piazza gremita di fedeli. Persone da tutto il mondo facevano la fila per essere confessati o prendere la Sacra Comunione dalle mie mani. Ora di domenica alla funzione ritrovo le solite sei bizzoche coi mariti incartapecoriti e semi-addormentati al seguito.
Certo nella sistemazione ci ho guadagnato, mi hanno assegnato il secondo piano di una casa colonica, che divido con la Signora Carmela e il Signor Gennaro: due pensionati che si occupano dei venti ettari di terra che circondano la chiesa. La mia stanza ha un accesso diretto all'ampio terrazzo che domina i tetti del circondario fino alla distesa blu del mare. Di fronte in linea d'aria non ho altro che il profilo montuoso di Ischia, che sembra quasi congiungersi al basso rilievo di Procida e all'imponenza del Vesuvio. Niente a che vedere con la cella quattro metri per cinque arredata con un armadio ad anta singola e un crocefisso.
Durante le celebrazioni a Roma avevo tre assistenti che traducevano in simultanea in inglese, francese e tedesco. Dopo la Messa potevo vagare per la Chiesa perdendomi tra opere d'arte di fama mondiale; c'erano giorni in cui restavo a fissare per ore l'espressione delicatamente triste della Pietà o il medaglione incastonato nella piazza che rappresenta un Eolo intento a soffiare. Potevo dedicarmi alla lettura nelle biblioteche fornitissime. Avevo a disposizione tomi che un uomo comune non avrebbe mai neppure sognato, pagine vergate con una sottile calligrafia corsiva su fogli di pelle d'agnello conciata, da leggere esclusivamente nelle camere stagne, protette da spesse lastre di vetro temprato necessarie per controllare umidità, temperatura ed esposizione alla luce.
Qui tra le colline che sovrastano Sorrento il mio unico svago sono le passeggiate nel verde. Posso spaziare nelle vaste proprietà parrocchiali, tra macchie di agrumi e appezzamenti concimati con sterco animale. Vecchi sentieri battuti da pecore e mucche si inerpicano lungo i costoni di tufo delle colline per perdersi nei pascoli d'altura, tra l'erba ancora bagnata di rugiada e le rocce appena scaldate dal primo tiepido sole. L'odore aspro dei limoni si mischia all'olezzo nauseante del letame seccato. Mi sembra che quell'aroma mi abbia completamente impregnato, non riesco a togliermelo di dosso in nessun modo. Non l'avrei mai immaginato, ma mi riscopro a sentire la mancanza dello smog della capitale.
La nostalgia sparisce la domenica a pranzo, quando verso l'una la signora Carmela mi chiama per mangiare. Niente a che vedere con il desco romano. Riesco ad indovinare cosa sta cucinando nel momento stesso in cui apro gli occhi: l'odore della cipolla soffritta e della carne che bolle lentamente nel sugo di pomodori fatto in casa può voler dire solo ragù. Mica quello schifo in barattolo, il basilico qui c'è davvero e il profumo mi inebria. Se invece la prima cosa che salta al naso è l'aroma secco della legna bruciata, so per certo che il pranzo sarà cotto nel forno e la lista si riempie di leccornie che mi fanno venire l'acquolina in bocca. Pasta al gratin, con la panna fatta a mano dal latte appena munto e il salame paesano tagliato a dadini. Carne alla genovese con le cipolle e le carote fatte marinare nel sugo formato dal grasso sciolto e il vino bianco. Se il signor Gennaro decide che il gallo o il coniglio sono della grandezza adatta, di primo mattino si avvia nell'aia con l'affilato coltello dal manico d'osso in pugno e ci puoi scommettere che a mezzogiorno si gusterà coniglio alla cacciatora, con dei peperoncini piccantissimi strappati dalla pianta appena fuori dall'uscio di casa; anche i fegatini di pollo soffritti in padella mi fanno perdere la testa. Il signor Gennaro ha il suo asso nella manica: nella cantina interrata c'è una collezione infinita di botticelle di ottimo vino, fatto dall'uva delle vigne circostanti e pestato alla maniera di una volta, solo piedi nudi di uomini o ragazze che ancora non abbiano avuto il primo ciclo.

Da qualche mese poi una nuova pecorella si è aggiunta al mio gregge: Marina. Una quindicenne sbarazzina con i capelli color rame e una spruzzata di lentiggini sotto gli occhi nocciola intenso. Ogni domenica si presenta in chiesa, piazzandosi tra le prime file, con le gambe tornite fasciate da gonne al ginocchio o jeans attillati e la pelle abbronzata del collo sempre scoperta fino al solco dei seni. È sfacciata nel suo essere innocente. Adorabile visino angelico che porta diritto alla tentazione della carne. Quando, durante la Sacra Comunione, tira fuori la lingua aspettando che ci posi sopra l'ostia un brivido mi cavalca la spina dorsale fino a farmi inturgidire. La sua pelle odora di erba tagliata e terra bagnata. Sono questi i momenti in cui rimpiango di aver preso i voti, vorrei averla incontrata in un'altra vita. Dal confessionale di rovere scuro il sabato, protetto dalla sottile rete intarsiata nel legno, vedo la piccola protuberanza al centro del suo labbro superiore che viene risucchiata tra gli incisivi mentre pensa a quali colpe vuole che io assolva.
Oggi è sabato e mi aspetto che lei sia lì per rendermi partecipe ancora una volta delle sue innocenti scappatelle dagli ordini materni. Mi siedo nello scomodo anfratto.
“Qual è il tuo nome figliola?”
“Marina”
“Dimmi, cosa ti porta qui oggi?”
“Parroco” succhia il labbro all'interno “ho mentito alla mamma e ho preso una fetta della torta che aveva preparato alla nonna senza chiederle il permesso”
Un altro risucchio.
“Poi ho lasciato....” abbassa il tono talmente tanto che non riesco a capire cosa dice.
“Come hai detto Marina?”
“Niente parroco, questi sono i miei peccati”
“Figliola sforzati di essere ubbidiente e non lasciarti trasportare dai peccati di gola. In nome del potere conferitomi dal Santo Padre e da Nostro Signore e Suo Figlio che è Dio io ti assolvo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Amen.” mi fermo un attimo e guardo la chiesa vuota attraverso le tendine del confessionale.
“Dici dieci Ave Maria e sarai salva”
Si alza e va via. Non sono in controllo delle mie azioni quando inizio a seguirla. Lei attraversa lo stretto vicolo e si infila in un viottolo sterrato che porta ad una baracca alle spalle della stalla delle mucche. Qualcuno all'interno le parla.
“Dove sei stata?”
“A confessarmi.”
“Mi sei mancata.”
Il rumore del bacio si distingue chiaramente fin dall'esterno. Giro intorno al fabbricato fino a trovare una stretta intercapedine che mi permette una buona visuale dell'interno. Vedo Marina stretta in un abbraccio a Pietro, che le sta infilando la lingua in gola in un bacio umido e passionale. Lui è il figlio del proprietario di un maneggio, alto e asciutto. Passa tutti i giorni, da quando ha lasciato la scuola, a strigliare cavalli e allevare pony. Le braccia muscolose scivolano verso i glutei di lei stringendoli fino a far sbiancare le nocche.
“Ahi, mi fai male!”
La solleva come un fuscello per posarla sul tavolo che occupa il centro dell'ambiente, un pesante mobile in castagno dove venivano appoggiati i quarti di bue quando li macellavano. Marina cerca con la mano la patta dei pantaloni da lavoro aprendo cintura e cerniera senza mai staccarsi dalle sue labbra. La virilità dura e grossa scatta fuori dall'elastico degli slip mentre lui si abbassa i vestiti alle ginocchia. Marina si sfila le scarpe facendo leva con la punta di una sul tallone dell'altra e scivola fuori dalla tuta, allargando l'elastico con i pollici e muovendosi sinuosa sui fianchi.
La mia mano cerca il mio sesso sotto la tunica e lo stringe forte.
Pietro si appoggia all'apertura bagnata di lei fermandosi un attimo, poi spinge con tutta la forza delle sue anche contraendo i muscoli delle natiche sode. Lei spinge la testa all'indietro e quasi ruota gli occhi a mostrarne il bianco. Poi i loro respiri si armonizzano e il mio con loro. Poggio la mano libera sul freddo alluminio della lamiera. Un gemito, un grugnito, un urlo quasi soffocato. So che tutto è finito, sia per loro sia per me. Non riguardo dentro. Il fresco della sera mi ricorda cosa implica il mio voto. Mi allontano con passo amaro verso la mia stanza.


Su Vincenzo Cioffi
Originario di Vico Equense. La passione per la scrittura gli deriva da un amore senza limiti per la lettura. Era ed è un lettore sfrenato, ma a un certo punto leggere non gli è più bastato. Voleva creare un proprio mondo, con i suoi personaggi e le sue regole. Negli anni ha cercato di affinare le proprie capacità confrontandosi con amici che condividevano la sua stessa passione.

Sulla rubrica Squarci
Se la scrittura si serve di aghi e coltelli, se punge e lacera, se ogni pagina apre un varco in mezzo all'ovvio e al non detto, se la ragione ha bisogno di attimi di illucidità, se ogni testo si apre su un paesaggio interiore, se è un buco della serratura da cui spiare il mondo, se duole, se è una lama nella carne, se è una trama interrotta in un punto a caso, se la narrazione si spezza come un canto, se è una dissonanza, se semplicemente siete curiosi di sapere chi siamo. Estratti, ferite, fenditure di scrittura, un modo per sentire i nostri silenzi e leggere tra le righe di ciò che abbiamo in cantiere.