Squarci | venerdì 2 dicembre 2005

Maria Teresa Cialoni

Cristina

Camminava con la testa bassa, lentamente. Forse sentì che la guardavo perché alzò gli occhi verso di me. Si fermò. I suoi occhi erano strani. Dietro le pupille azzurre, c’era molta tristezza, uno strano dolore.
Non riuscivo a distogliere lo sguardo da quella figura di donna che mi era apparsa all'improvviso. Non era bella: troppo magra, la bocca larga, e i lineamenti imprecisi. Ma c'era qualcosa in lei... qualcosa che mi sfuggiva.

"... per piazza Vittoria?"
Aveva parlato, ma io non riuscivo a capire le sue parole.
"Dico a lei!" disse, e un sorriso sfiorò le sue labbra. "E' questa la strada per piazza Vittoria?" ripeté sillabando.
La solitudine di tante ore esplose dentro di me, lasciando un grande vuoto.
"Venga" dissi "l'accompagno".
Sapevo – non so perché - che a lei non importava nulla della strada per piazza Vittoria. La sua spalla sfiorava il mio braccio, mentre camminavamo sotto il sole, ne sentivo il calore attraverso la stoffa.
"Una panchina", disse a un tratto con un sorriso infantile.
Sedemmo e, improvvisamente, me la trovai tra le braccia. Era piccola e fragile, morbide le sue labbra, i suoi occhi erano lontani.
"Andiamo via" disse poi, come se l'avesse presa una gran fretta, "andiamo via!"
"Dove?"
"Andiamo via..."
Sentivo la sua mano inquieta nella mia, mentre camminavamo.
"Come ti chiami?"
"Cristina".

Aprii la porta e accesi la luce. Lei entrò. Si guardò attorno e sedette sull'unica sedia. Io andai a sedermi sulla sponda del letto.
"Cristina" dissi "sai cosa vuol dire quando una ragazza va spontaneamente a casa di un uomo?"
"Cosa vuol dire?"
"Bene" precisai in tono cattedratico "può significare due cose: o ha deciso di rendersi ridicola o…"
"Non voglio rendermi ridicola" disse lei piano.
"Cristina, non voglio che tu resti"
Il suo sguardo intenso si velò.
"Perché?" mi chiese.
"Cristina" le dissi dolcemente "ci sono tante cose che tu, forse, non vuoi, non puoi capire".
I suoi occhi profondi mi fissavano intensamente. Mi alzai turbato.
"Va' via" le dissi "vattene adesso, subito".
C'era, in quegli occhi, disperazione. Non si mosse. Mi guardava senza parlare, e il suo viso di bambina s’induriva in un'espressione caparbia, ostinata.
"Ma almeno spiegami!" le dissi.
Non rispose e io la scossi violentemente.
"Vattene!" gridai, "vattene!"
Abbassò gli occhi:
"Lasciami!"
Rimasi a guardarla. C'era in lei qualche cosa di indefinibile, come un terrore sommesso e nascosto. Piangeva. La strinsi fra le braccia.

La luce di un'insegna al neon mandava lampi di luce rossa attraverso la finestra aperta, illuminando il viso di Cristina.
Non riuscivo a dormire. Pensavo a lei, a quei suoi atteggiamenti da bambina dietro ai quali, forse, si nascondevano un'ansia, una disperazione profonda.
Ecco, era come se Cristina volesse vivere un giorno in ogni minuto.
Il suo respiro era irregolare e affannoso. La vedevo agitarsi nel sonno. Mormorava parole incomprensibili. Poi si svegliò improvvisamente. La strinsi a me.
"Cristina" le dissi piano "Cristina, ti amo!"
I suoi occhi si oscurarono. Forse era la luce del neon nella notte. Mi addormentai con la sua mano nella mia.

Mi svegliai.
Cristina non c'era.
Mi alzai. Adesso la mia piccola casa era vuota. Mi vestii lentamente. Il mio portafogli era aperto sulla sedia... mancavano cinquanta euro. Ma sul tavolino c'erano ancora l’orologio e il braccialetto d'oro.
Povera Cristina!
Chiusi gli occhi per rivederla. Camminava con la testa bassa... lentamente...
Mi disperai.
"Cristina... ti amo!..."


Sulla rubrica Squarci
Se la scrittura si serve di aghi e coltelli, se punge e lacera, se ogni pagina apre un varco in mezzo all'ovvio e al non detto, se la ragione ha bisogno di attimi di illucidità, se ogni testo si apre su un paesaggio interiore, se è un buco della serratura da cui spiare il mondo, se duole, se è una lama nella carne, se è una trama interrotta in un punto a caso, se la narrazione si spezza come un canto, se è una dissonanza, se semplicemente siete curiosi di sapere chi siamo. Estratti, ferite, fenditure di scrittura, un modo per sentire i nostri silenzi e leggere tra le righe di ciò che abbiamo in cantiere.